Nel corso degli ultimi anni, il patronato ha potuto osservare come sia profondamente cambiato il welfare nazionale e territoriale, sia sotto il profilo della qualità e quantità delle prestazioni, per ciò che concerne le condizioni di accesso da parte dei cittadini, nonché per la tipologia delle persone che ne fanno richiesta. Progressivamente si è visto come il reddito sia diventato sempre più un elemento di discrimine nelle prestazioni previdenziali nazionali. In buona sostanza, si è assistito negli anni ad una cambiamento profondo nella declinazione del diritto individuale legato alla cosiddetta “prova dei mezzi”, ovvero alla condizione di reddito personale e familiare. È quanto ha affermato Morena Piccinini, presidente Inca, nella relazione introduttiva al convegno “Le prestazioni sociali, tra universalismo e selettività", che si è svolto a Roma nella giornata di ieri (mercoledì 17 febbraio).

“Oramai – ha spiegato la presidente dell’Inca – al livello nazionale sono rimasti soltanto tre istituti del welfare per i quali non è richiesta la posizione reddittuale: la pensione di vecchiaia, l’assegno di accompagnamento e il ricovero ospedaliero”. Per tutte le altre prestazioni di protezione sociale, la verifica della capacità individuale di spesa, attraverso l’Isee, è diventato l’indicatore principale con cui è possibile stabilire se si ha o no il diritto ad accedere ad una determinata prestazione.

Una tendenza che fa temere in un prossimo futuro la trasformazione del modello universalistico di welfare finora conosciuto, in un sistema di protezione pubblico residuale e destinato ai più poveri tra i più poveri. La ricerca realizzata dalla Fondazione Di Vittorio, che è stata presentata in occasione del convegno, conferma le preoccupazioni del sindacato e del patronato. Complice la crisi, il sistema di welfare è stato sottoposto ad una cura dimagrante che lo fa apparire sempre più un miraggio per quanti hanno bisogno di tutele. Nel nome della semplificazione e dell’eliminazione degli sprechi, si è proceduto ad una riduzione strutturale della spesa sociale, fissando asticelle reddituali sempre più basse che di fatto escludono dalle prestazioni assistenziali un numero maggiore di cittadini.

Peraltro, ciò è avvenuto, spiega la ricerca, in un quadro legislativo sempre più opaco. In mancanza di regolamenti da parte degli enti locali si è creato un modello disomogeneo, in cui ciascun territorio fa per sé, con proprie regole e criteri di accesso alle prestazioni, dove la ricchezza di una regione può fare la differenza. Un sistema che ha creato disparità di trattamento, a scapito delle realtà meno dotate, che sono  quelle dove diventa più difficile esercitare un diritto sia esso sanitario o semplicemente di accesso ai servizi sociali. L’effetto di questo stato di cose – si legge nella ricerca - ha prodotto che nel primo decennio di applicazione, l’utilizzo dell’Isee per l’accesso agevolato alle prestazioni sociali, è risultato in costante crescita, mentre a partire dal 2012 si assiste a un calo significativo delle Dichiarazioni sostitutive uniche (Dsu), in particolare al Sud. Tendenza che prosegue con l’istituzione del nuovo Isee (dati Monitoraggio 2015).

Dal punto di vista dei valori Isee risultanti dalle dichiarazioni, nel triennio 2012-2014, si osserva una costante presenza percentuale di nuclei in condizione di povertà a Isee nullo (tra l’11,8% e il 12,8%), e un progressivo spostamento della composizione della popolazione Isee verso valori più alti, ovvero verso servizi per i quali l’Isee è richiesto solo per determinare la quota di compartecipazione alle spese da parte delle famiglie. In sostanza, cresce sempre più la quota dei cittadini che devono pagare per avere una prestazione di welfare, nonostante i dati diffusi dall’Istat indichino come la povertà oramai interessi circa 4 milioni di persone. Un numero impressionante che evidentemente non ha risposte ai propri bisogni.

Da un punto di vista quantitativo, nel decennio 2002-2011,  la diffusione dell’Isee è risultata in costante crescita (da circa 2 milioni di Dichiarazioni sostitutive uniche a circa 7,5 milioni, per una incidenza sulla popolazione nel suo complesso tra il 12,4% e il 31,1%). Successivamente, le Dichiarazioni sostitutive uniche (Dsu) sono calate nei tre anni successivi approssimativamente del 20%, e cioè di circa 1.500.000. Infatti, nel 2014 sono state presentate 6,06 milioni di Dsu per oltre 16,4 milioni di persone, pari a circa il 27% della popolazione italiana. Il trend alla diminuzione è confermato dai dati del monitoraggio sul nuovo Isee: al 30 settembre 2015 le Dichiarazioni sostitutive uniche presentate sono state pari a circa 3,5 milioni. In questo quadro, secondo la Cgil e l’Inca, la legge delega di contrasto alla povertà, presentata dal governo, rischia di perpetrare questo stato di cose creando una sostanziale riduzione delle prestazioni sociali pubbliche e una frattura sociale tra i territori.