Anche negli anni di crisi l’esperienza della contrattazione sociale territoriale ha continuato a produrre tavoli di confronto, specie nelle regioni del Centro-Nord. Ogni anno sono circa un migliaio le intese (o i verbali di incontro) che le organizzazioni sindacali (in maggioranza quelle dei pensionati) hanno unitariamente firmato con i governi regionali e territoriali, in particolare con i Comuni. Si tratta di un’attività molto variegata per forme e contenuti, spesso di taglio difensivo (su ammortizzatori, fisco e assistenza agli anziani), che ha però avuto un effetto attenuante della crisi e dei provvedimenti di taglio del welfare, spesso adottati dai Comuni in conseguenza dei tagli europei e nazionali della spesa pubblica.

Soprattutto, l’esperienza ormai consolidata della contrattazione sociale territoriale costituisce un’alternativa praticata e praticabile alle esibizioni di autosufficienza della politica e dei governi che vengono di continuo ripetute a livello nazionale. Va tuttavia rilevato che la crisi ha accentuato le diseguaglianze fra territori, comunità e persone: per reddito, occasioni di lavoro, diffusione e qualità dei servizi di welfare. Pensare che possa generarsi una ripresa economica che prescinda da queste disparità è un grave errore che produce equivoci. Se in gran parte d’Italia non esiste la coesione sociale (e istituzionale) e quindi le condizioni di benessere e di legalità minime per attrarre investimenti, non sarà mai possibile che il ritmo di crescita del resto del Paese sia così intenso da compensare queste disparità.

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Da tempo, con il suo Piano del lavoro, la Cgil sostiene che produrre una crescita stabile, diffondere l’innovazione (recuperare i ritardi), ridurre le diseguaglianze (sociali e territoriali) e creare lavoro di qualità sono esattamente la stessa cosa per un Paese industriale e avanzato come l’Italia, non scelte politiche alternative fra loro, come ritiene il pensiero economico liberista europeo e nazionale. Rovesciamo il ragionamento: nessuna cosiddetta riforma economica e sociale (o legislativa) è da considerarsi utile se non ha effetti di riduzione del divario Nord-Sud e del tasso inaccettabile di disoccupazione giovanile stabilizzatosi in questi anni a quote talmente alte da sottrarre un’intera generazione di giovani a una prospettiva di vita e lavoro dignitosi.

Invece che immaginare crescite da domanda estera in grado di trascinare anche la ripresa delle aree meno sviluppate, il Piano del lavoro propone di investire direttamente sulle risorse sottoutilizzate, per far crescere la domanda interna (soprattutto gli investimenti che ristagnano da oltre 20 anni). Il Piano del lavoro prevedeva due percorsi convergenti per produrre gli effetti desiderati di innovazione, crescita e lavoro diffusi: uno fatto di indirizzi nazionali di innovazione (in continuità con il progetto “Industria 2015”) sostenuti da contributi pubblici selettivi, un secondo avviato dal basso con l’individuazione dei nuovi bisogni del territorio e delle comunità, e la definizione di progetti di risposta immediatamente attivabili (a spesa pubblica invariata).

Ogni anno circa un migliaio le intese firmate

Essendo poco probabile che L’Unione europea e l’Italia imbocchino questo percorso di programmazione nazionale di uno sviluppo innovativo, la Cgil ha deciso di sperimentare unitariamente la sequenza bottom up attraverso una rinnovata e diffusa esperienza di contrattazione sociale da avviarsi in 100 città e 20 regioni. Il programma è sicuramente ambizioso, ma non utopistico. L’esperienza che si è avviata negli ultimi semestri dimostra che è possibile rinnovare la contrattazione sociale e finalizzarla agli obiettivi del Piano del lavoro. Si sono infatti diffuse quasi ovunque attività preparatorie di formazione quadri e significativi accordi regionali. Oltre a sperimentazioni di inclusione realizzati dai coordinamenti giovani.

Non si tratta ancora di attività coordinate, ma convergenti sugli obiettivi del Piano del lavoro. L’ultimo e più completo esempio in questa direzione è il Patto per il lavoro realizzato nel 2015 in Emilia Romagna (firmato da 49 soggetti tra Regione, sindacati, associazioni di impresa, università, Comuni e Province della Regione), che  indica una strada valida per tutti: puntare alla crescita del valore aggiunto della Regione e dimezzare la disoccupazione (non destinare solo le risorse esistenti); codecidere gli indirizzi di innovazione in molti campi (per cui si stanziano 15 miliardi in 5 anni, tra fondi europei, nazionali e regionali); validare l’accordo con una consultazione dei cittadini.

Nel documento la giunta e le componenti della società regionale condividono obiettivi e driver di crescita dell’economia e del lavoro nell’idea che rafforzare la formazione, il welfare, la manutenzione del territorio, l’innovazione e la legalità è socialmente giusto e crea nuove opportunità di lavoro. Su questi stessi temi La Cgil e lo Spi stanno realizzando momenti di formazione aperti alle categorie regionali e alle Camere del lavoro con la messa a punto di specifici manuali per la nuova contrattazione sociale.

Non sfuggirà a nessuno che, oltre una strategia di politica economica, il Piano del lavoro Cgil costituisce un’alternativa alla centralizzazione dei governi (europeo e nazionali) e un modo di rinvigorire la nostra stanca democrazia con forme nuove di partecipazione e inclusione delle persone e delle organizzazioni sociali. Oltre a una via di rinnovamento del sindacato confederale.