Il 13 aprile 1944 Bruno Buozzi viene fermato per accertamenti dalla polizia fascista e condotto in via Tasso. Il Cln di Roma tenta a più riprese, ma senza successo, di organizzarne l’evasione e il 1° giugno, quando gli americani sono ormai alle porte della capitale, il nome del sindacalista (già segretario generale della Fiom e della Cgdl) ed ex deputato socialista viene incluso dalla polizia tedesca in un elenco di 160 prigionieri destinati a essere evacuati da Roma.

La sera del 3 giugno, con altre 13 persone, Buozzi è caricato su un camion tedesco. Il giorno seguente – sembra per ordine del capitano delle SS Erich Priebke – viene trucidato con tutti i suoi compagni. Così, a un anno esatto dall’accaduto Giuseppe Di Vittorio ricorda sul “Lavoro” il compagno e amico: “Nessun lavoratore italiano che abbia conosciuto Bruno Buozzi potrebbe ricordare il suo martirio senza sentirne un profondo dolore. Bruno Buozzi è stato uno dei dirigenti sindacali fra i più amati dal proletariato, perché Egli fu il tipo più completo dell’organizzatore che abbia prodotto il movimento operaio italiano”.

Operaio, Buozzi “ha amato gli operai e ne ha servito la causa con passione ardente, temperata da un senso elevato e impareggiabile di equilibrio. Bruno Buozzi non è mai stato un professionista dell’organizzazione. Egli è stato l’operaio che lotta per l’elevazione dei propri compagni di lavoro, per l’emancipazione della propria classe, e che nel corso di questa lotta è sempre più apprezzato dalla massa in cui lavora ed è da essa direttamente eletto a proprio capo ed elevato fino alla più alta carica della grande organizzazione dei lavoratori italiani, alla quale la sua forte personalità impresse un più alto prestigio”.

Bruno Buozzi, sempre secondo le parole di Di Vittorio, “fu anche il tipo più compiuto e più vero dell’autodidatta. Pur continuando a lavorare nel suo mestiere di operaio metallurgico, altamente specializzato, s’era formata una vasta cultura, ch’Egli mise, come tutto se stesso, al servizio del proletariato, alla cui causa consacrò e donò la sua vita. Si poteva consentire o dissentire su alcune vedute particolari di Bruno Buozzi – come è capitato al sottoscritto –, ma ci si sentiva sempre legati a Lui da un profondo rispetto e da un grande affetto”.

“Chi scrive ha potuto seguire l’opera di Buozzi in Italia ed in esilio ed ammirarne la continuità, anche quando questa opera costava non lievi sacrifici. Io mi legai d’una particolare amicizia personale con Lui, sin dal 1934, da quando fummo per lunghi anni entrambi componenti il Comitato d’unità di azione socialista e comunista, poi nel grande movimento popolare antifascista creato su basi unitarie nell’emigrazione italiana all’estero. Mi sia consentito di affermare che in quella nostra attività comune sorsero i primi germi di quella più vasta unità sindacale realizzata in seguito e di cui Buozzi fu uno degli artefici principali”.

Il comune impegno nell’antifascismo fece sì che i due grandi sindacalisti si ritrovassero nel carcere di Parigi, dove furono rinchiusi dai tedeschi. “Insieme, ancora, fummo tradotti ammanettati in Italia, attraverso la Germania, passando di carcere in carcere – scrive Di Vittorio –. Ci ritrovammo ancora assieme a Roma, dopo il 26 luglio e durante il periodo dell’occupazione tedesca, nel corso del quale, in riunioni clandestine, furono gettate le basi della nostra odierna unità sindacale, onore e vanto dei lavoratori italiani, che fu principalmente opera di Bruno Buozzi”.

“Gli assassini nazisti e fascisti – prosegue Di Vittorio – comprendevano quale valore rappresentasse per il proletariato italiano Bruno Buozzi e perciò lo massacrarono vilmente. Bruno Buozzi è morto per mano dei nemici del proletariato e del popolo. Egli vive e vivrà sempre nel cuore dei lavoratori italiani. Egli vive nella nostra unità sindacale e nella nostra grande Confederazione, e ne continuerà ad ispirare la lotta quotidiana in difesa dei lavoratori per i quali visse e morì”.

A dieci anni dal suo assassinio, Di Vittorio tornerà a ricordare Buozzi – sempre dalle colonne del “Lavoro” (6 giugno 1954) – ripensando al loro incontro nel carcere parigino “La Santé”: “Il nostro incontro avvenne nel febbraio 1941. Ignoravo che anche Buozzi si trovasse rinchiuso nella stessa prigione. Un giorno, verso la fine di febbraio, la polizia hitleriana addetta alle funzioni carcerarie, trasse dalla monotonia delle celle d’isolamento un folto gruppo di detenuti per una corvèe. Bisognava scaricare alcuni autocarri carichi di eccellente pane, destinato ai nostri carcerieri. Fummo raggruppati in un cortile, dal quale poi, per gruppi di dieci detenuti in fila indiana, scortati da guardie armate di mitra, si partiva carichi di sacchi ripieni di pagnotte, verso i magazzini dell’immensa prigione”.

Fu in quel raggruppamento di detenuti comandati alla “corvèe” che Di Vittorio rivide Buozzi. “Appena i nostri occhi si incontrarono, con moto quasi istintivo manovrammo entrambi accortamente per avvicinarci l’uno all’altro. Riuscimmo appena a toccarci furtivamente le mani, giacché la severissima vigilanza dei nostri aguzzini tendeva a rendere impossibile ogni scambio di parole e di segni fra detenuti. Vidi gli occhi amichevoli di Buozzi brillare di gioia nel vedermi: ero la prima persona conosciuta e amica che incontrava in quella triste prigione, nello stato di angoscia in cui lo aveva gettato l’arresto. ‘Per me non m’importa nulla’, mi disse subito: ‘Mi preoccupa il grande dolore di mia moglie e della mia bambina, poveretti!’”.

“Un urlo da belva emesso da uno dei nostri guardiani, che aveva sentito il bisbiglio di quelle poche parole, troncò sull’inizio la nostra conversazione. Tuttavia riuscimmo a rimanere nello stesso gruppo di dieci e a marciare l’uno dopo l’altro nella corvèe. Mentre salivamo uno scalone, curvi sotto il carico del pane, riuscii a dire a Buozzi parole di conforto per la sua famiglia e cercai di sapere le cause del suo arresto. Buozzi mi disse che la Gestapo hitleriana, ignara della sua vera personalità, voleva sapere da lui i motivi del suo arresto, dato ch’Egli era stato arrestato su richiesta del governo fascista italiano, per essere trasferito in Italia, a disposizione di Mussolini”.

Bruno Buozzi aveva appena completato la frase, “che uno dei nostri guardiani, con uno spintone improvviso a Buozzi – che mi precedeva – ci sbatté a terra entrambi, facendoci ruzzolare sulle scale, col nostro carico di pane, coprendoci d’improperi e di minacce. Fummo subito separati e riportati ognuno nella propria cella, col rimpianto di non aver potuto continuare il discorso e con le narici inondate dalla fragranza di quel pane fresco, che la fame ci faceva sognare ogni notte! Da quel momento, però, con la tecnica nota ai vecchi carcerati politici, riuscii a stabilire collegamenti quasi regolari con Buozzi mediante lo scambio di biglietti, con i quali ci mandavamo notizie e pensieri e qualche cibaria”.

Dopo alcuni giorni i due riuscirono a prendere l’ora d’aria quotidiana nello stesso cortile, “dove la possibilità e la volontà dei detenuti di conversare fra loro sono più forti della più occhiuta vigilanza. Tutte le nostre conversazioni, partendo dal presupposto comune dell’assoluta necessità dell’unità sindacale, nazionale e internazionale, e dall’esigenza imperiosa dell’unità d’azione fra i due partiti, comunista e socialista – quale base fondamentale d’unità della classe operaia – rafforzavano continuamente il nostro accordo sulle questioni di maggiore interesse, relative alla riorganizzazione del movimento operaio italiano e alla ricostituzione democratica dell’Italia”.

*Responsabile Archivio storico Cgil nazionale