Stando a quello che si legge sui giornali, il sindacalismo italiano, chiuso nella tutela dei lavoratori dipendenti – ovviamente manuali, meglio ancora se metalmeccanici - si interesserebbe poco o nulla di tutte le altre forme di lavoro, siano essi collaboratori, partite Iva o precari. In realtà non è così, sia sotto il profilo meramente conoscitivo che per quello della tutela. La Cgil, vale la pena ricordarlo, fu la prima confederazione a indagare, sul finire degli anni Novanta, il lavoro parasubordinato (ne uscì il bel libro curato da Giovanna Altieri e Mimmo Carrieri, dal titolo ll popolo del 10%. Il boom del lavoro atipico), e poi quello precario. La stessa attenzione viene oggi attribuita al lavoro professionale, oggetto di una ampia ricerca nata dalla collaborazione, nell’ambito della Consulta del Lavoro Professionale della Cgil, tra federazioni sindacali e soprattutto molte associazioni di professionisti e lavoratori autonomi operanti nelle professioni intellettuali.

Lo studio, realizzato dall’Associazione Bruno Trentin, offre moltissimi spunti di riflessione, primo fra tutti, a mio avviso, il fatto che la maggioranza degli intervistati, oltre l’80%, si autorappresenta come un vero professionista dotato di ampia autonomia nel decidere luoghi e tempi del lavoro. Solo il 13% del campione si considera un dipendente mascherato, e tale sensazione colpisce per lo più i collaboratori a progetto con un solo committente che lamentano retribuzioni troppo basse sia in assoluto, sia se comparate con quelle di chi opera, magari nella stessa professione, con un contratto da dipendente. Per tutti gli altri il lavoro autonomo rappresenta una scelta duratura, una professione impegnativa, che richiede formazione continua e a volte è fonte di stress, ma è sempre stimolante ed interessante. Purtroppo (e qui viene la lunga lista di aspetti negativi) in Italia essere professionisti, nonostante l’inutile retorica sull’importanza e il ruolo strategico rivestito dai “knowledge workers”, è un percorso ad ostacoli.

Poco meno della metà degli intervistati percepisce meno di 15 mila euro/anno lordi ed appena il 21,7% supera i 30 mila euro. Per inciso, lavorando in larga maggioranza per grandi committenti pubblici e privati è facile intuire che tali numeri non siano da “correggere”: qui l’evasione fiscale è pressoché sconosciuta. Bassi redditi, si è detto, e neanche realmente disponibili, vanno detratte le spese per la formazione e l’aggiornamento professionale, che in questi mestieri è indispensabile ma deve essere autofinanziata, e quelle per il welfare individuale, che deve compensare per quanto possibile l’inesistente welfare pubblico. In fin dei conti i committenti fanno ricorso al lavoro autonomo sia perché garantisce le competenze di cui hanno bisogno per il tempo necessario, ma anche perché in Italia i lavoratori della conoscenza a partita Iva vengono a costare meno dei dipendenti. In più, all’occorrenza, è possibile rimandare di mesi il pagamento dei compensi, certi di non incorrere in alcun serio guaio legale.

Non è un caso che, in Italia, oltre il 30% dei fallimenti di aziende deriva dal ritardo nei pagamenti e i professionisti autonomi si trovano ancor più a rischio: solo un terzo degli intervistati dichiara di essere pagato regolarmente a fine prestazione, mentre chi lavora per la pubblica amministrazione attende anche sei mesi per i compensi dovuti. Date le condizioni appena dette, non stupisce che il 67% dei professionisti che hanno risposto all’indagine si consideri un lavoratore con scarse tutele, dichiari difficoltà per arrivare a fine mese contando sui proventi del proprio lavoro e per sopravvivere debba auto-sfruttarsi, imponendosi lunghi orari di lavoro. Questi lavoratori chiedono a politica e sindacati una maggiore attenzione per le proprie condizioni: la difficoltà di pagare alte aliquote pensionistiche ed assicurative, l’assenza di qualsiasi supporto in caso di malattia e di discontinuità occupazionale richiedono tutele che un professionista ben retribuito può acquistare sul mercato, ma nel caso dei “lavoratori autonomi di seconda generazione”, come li definirono Sergio Bologna e Andrea Fumagalli nel 1997, il mercato funziona solo in un senso, quello dei committenti, che hanno tutto il potere contrattuale nelle proprie mani.

Questa ricerca, in definitiva, conferma alcune distorsioni note, ma lancia anche un allarme circa il fatto che, in assenza di interventi, le condizioni di lavoro dei professionisti si sono molto aggravate. Le leggi di riforma del mercato del lavoro introdotte a partire dalla metà degli anni ’90 hanno contribuito, a volte anche contro le volontà degli estensori dei provvedimenti, a trasformare il mercato del lavoro in una sorta di “supermercato”, sui cui scaffali, ben allineati, troviamo “prodotti” – i lavoratori - molto simili per competenze, ma con costi diversi a secondo del contratto applicato, tra i quali le aziende possono scegliere con un ampio grado di libertà.

Nel 1996, all’introduzione del lavoro interinale, venne fissato il principio che quella forma di prestazione non poteva essere pagata meno dell’equivalente lavoro dipendente che andava a sostituire. Poi il lavoro è peggiorato, si è precarizzato; è nata, per dirla con Guy Standing, una vera e propria classe di precari e, come ricordava 15 anni fa Aris Accornero, il Lavoro con la maiuscola ha lasciato il posto a quello con la minuscola. In questa genesi il lavoro temporaneo è diventato “somministrato”, proprio come le minestre che si comprano al supermercato, mentre il lavoro autonomo si è proletarizzato.

Oggi, dopo sette anni di crisi economica che ha falcidiato l’occupazione, il governo, con il Jobs Act e la recente Legge di Stabilità, ha intrapreso un programma di intervento inteso ad aumentare l’occupazione, sia mettendo fuori legge le collaborazioni a progetto sia spingendo, con una politica di incentivazione, i datori di lavoro privati verso la stipula di contratti a tempo indeterminato, seppure a tutele crescenti. Sinora, come testimoniano i recenti dati dell’Inps, le aziende hanno reagito abbandonando le collaborazioni, l’apprendistato e probabilmente le altre forme di lavoro atipico (le nuove partite Iva languono, il lavoro temporaneo chissà) per spostarsi verso il contratto meno costoso (che oggi è quello da dipendente). Per gli ex collaboratori precari la stabilizzazione è un indubbio miglioramento, ma quali sono le novità positive per i professionisti a basse tutele?

Le politiche, anche quelle recenti, sono state contraddittorie: da una parte si aumenta l’aliquota pensionistica per le partite Iva – un onere insostenibile visti i redditi ridotti – dall’altra si corregge la norma con una sospensione temporanea per 12 mesi; il regime dei contributi minimi, che garantiva uno sconto fiscale, è stato prima esteso ma reso meno conveniente e poi di fatto rimandato (e solo dopo un forte pressing delle associazioni e dei sindacati). Il bonus di 80 euro è stato negato ai professionisti a prescindere dal reddito (e lo stesso probabilmente avverrà per le misure contro la povertà finanziate con il “tesoretto” scoperto di recente dal Ministero dell’Economia), mentre dal cilindro del Job Act è uscito un “contributo di solidarietà” che pone a carico anche dei lavoratori autonomi eventuali buchi nelle coperture del decreto sulla stabilizzazione dei co.co.pro. Il ministero del Lavoro ha subito promesso di annullare la clausola, ma anche questo “infortunio” contribuisce a rafforzare l’idea che nei piani alti della politica si sappia poco di come sono davvero i professionisti: si è probabilmente fermi ai tempi in cui la categoria era composta di potenti e rispettati avvocati, medici, notai e consulenti che girano in Porsche, come il personaggio di Leonardo Notte nella fiction 1992.

I tempi sono cambiati, è davvero tanto difficile prenderne atto?