In altri tempi una discussione sulla “finanza” sarebbe stata impensabile in Cgil, per struttura genetica e per dovere d'ufficio, concentrata sull'economia reale e produttiva. Ma tra i tanti aspetti negativi, la crisi globale una novità la ha portata. Si sono accesi i riflettori sul ruolo svolto dalla finanza nelle attività economiche e sulle degenerazioni avvenute quando la politica, dominata o condizionata dal pensiero unico neoliberista, ha scelto di ridurre i controlli e di allentare le regole che la governavano.

Si è così opacizzato ulteriormente un mondo che molto trasparente non è mai stato e che è caduto in balia delle pratiche esoteriche dominate dagli amministratori delegati e dai consigli di amministrazione delle grandi banche di investimento: come se su tutto l'orbe terracqueo sventolasse la bandiera offshore di una nave non assoggettata al diritto di navigazione internazionale. Da Occupy Wall Street a Occupy Africa Unity Square, il movimento antiglobalizzazione finanziaria si è diffuso dal centro del potere alle periferie economicamente meno evolute di tutto il mondo.

La produzione di pubblicazioni in materia è ormai sconfinata. Di risultati concreti però non ce ne sono molti, perchè il “big money” ha a sua volta invaso e “lobbizzato” tutte le sedi politiche decisionali, sollevando interrogativi sulla stessa tenuta delle democrazie. Per questo assume un ruolo cruciale l’Osservatorio sulla finanza, realizzato dalla Cgil nell'ambito del dipartimento delle politiche economiche, perché ha la funzione di costruire elementi di conoscenza e di nuova consapevolezza anche attingendo da fonti di informazione meno domestiche.

Soprattutto grazie al contributo di Marcello Minenna abbiamo potuto addentrarci nella complessità delle dinamiche della finanza, della moneta, delle istituzioni economiche e finanziarie che le governano a livello internazionale e nazionale. Quando si parla di mercato bisogna ricordare che esso non è una condizione di natura, ma una costruzione umana e per questo sempre a rischio di trasformarsi in luogo di arbitrio del potere o di cassa di risonanza/arbitraggio/compensazione degli interessi dei cosiddetti poteri forti. Questo rischio in Italia si è tradotto in sistema relazionale, che collega trasversalmente i protagonisti della politica a quelli dell'economia.

Per generare la ricchezza, la sua equa distribuzione, l'innovazione e la sana competizione, servono regole ferme e strumenti di controllo: una cultura latitante dalle nostre parti, come dimostra l'attenzione insufficiente (volutamente insufficiente?) a tutte le istituzioni di sorveglianza, a partire dalle Autorità indipendenti di controllo del mercato. L'insopportabile ipocrisia che ammanta il tema della trasparenza, tanto invocato quanto poco praticato, nasconde scelte politiche feroci, che sono la causa principale dell'inarrestabile accentuarsi delle disuguaglianze, già grandi prima e ulteriormente aggravate durante la crisi globale.

Come dire che, mentre la classe lavoratrice si impoveriva a causa della contrazione dei redditi da lavoro e del welfare state, dell'aumento della disoccupazione e della pressione fiscale (su coloro che le tasse le pagano, mentre l'evasione continua ad avere il vento in poppa!), a causa delle cosiddette politiche di austerità (massimamente praticate nell'eurozona), i ricchi hanno continuato ad arricchirsi e, bolla dopo bolla, poco è cambiato nell'assetto del potere economico e finanziario.

Abbiamo fatto scoperte interessanti in questo periodo. Per venire ai problemi dell'eurozona, non è stato insignificante apprendere come i supposti vituperati “trasferimenti” dei paesi virtuosi (i paesi core) verso quelli sregolati (i Piigs) abbiano avuto in realtà un percorso inverso tramite i tassi di interesse pagati alla Bce. Che il salvataggio della Grecia è stato piuttosto il salvataggio delle banche francesi e tedesche. Che l'onere dell'aggiustamento è stato caricato per intero sulle spalle dei paesi debitori, mentre quelli creditori acquisivano tutti i vantaggi della moneta unica, come dimostra la lunga seria di anni di avanzi primari nella Bilancia commerciale della Germania e degli altri paesi suoi alleati nelle politiche rigoriste.

Queste cose sui nostri giornali non ci sono con la chiarezza che sarebbe necessaria, forse perché la mistica e la pratica dell'austerità offrono comoda e facile copertura agli arretramenti non solo economici, ma anche sul terreno dei diritti e delle tutele che si stanno imponendo al mondo del lavoro. È invece interessante scoprire come si sviluppa il dibattito e come se ne occupa l'informazione economica internazionale, a sua volta considerata spesso succube degli interessi dell'anglosfera. E ancor più interessante è trovare su quei giornali, su quei siti web, sui blog di economisti di variegata estrazione dottrinaria e accademica, importanti conferme di nostre analisi che invece gli autorevoli commentatori italici (sempre gli stessi) considerano roba vecchia e da rottamare.

Altrettanto rivelatrici nell'esperienza dell'Osservatorio sono alcune vicende della finanza pubblica e aziendale, tutte di casa nostra. Abbiamo scoperto, solo per fare uno tra i tanti esempi possibili, che nei bilanci del Monte dei Paschi di Siena si celavano prodotti derivati e strutturali che servivano a camuffare un bilancio fallimentare e che gli interventi di salvataggio effettuati con i denari pubblici andavano usati meglio. Abbiamo scoperto che, alla chetichella, il governo italiano è stato costretto ad aggiustamenti delle manovre finanziarie per sborsare soldi in contanti – e tanti – a qualche gigante della finanza internazionale (sempre gli stessi tre o quattro) per corrispondere a clausole contrattuali capestro.

E non abbiamo avuto bisogno delle recenti audizioni parlamentari dei responsabili del Tesoro per scoprire che non solo le casse nazionali, ma anche quelle degli enti locali sono piene di orridi prodotti strutturati e derivati. Tutto ciò ci ha fatto acquisire una nuova consapevolezza della gravità della situazione italiana e di quelle che sarebbero le riforme realmente necessarie alla sua modernizzazione. Lo ha scritto in modo magistrale Vincenzo Visco in un recente articolo sul Sole-24 ore. A Bruxelles il governo italiano non avrebbe dovuto chiedere, come ha fatto il ministro Padoan, più flessibilità sui vincoli di bilancio, della serie “siate comprensivi, portate pazienza”. Bensì – e l'occasione offerta dalle posizioni del nuovo governo della Grecia avrebbe dovuto essere sfruttata allo scopo – andava richiesta con pacatezza, moderazione, ma pari fermezza una ridiscussione delle politiche messe in atto nell'area della moneta unica.

Formulare una credibile proposta sul debito, agire affinché la liquidità del Quantitative Easing di Mario Draghi possa arrivare, tramite le banche, all'economia reale: queste dovrebbero essere le priorità del governo, le riforme vere. E invece anche la proposta governativa sulle sofferenze bancarie sembra più un regalo agli istituti di credito che un modo per incentivare davvero gli investimenti produttivi. Insomma, l'attenzione dedicata a una materia arida, ostica e lontana come la finanza è ben spesa. Osservate attraverso questa lente, le politiche del governo appaiono con maggiore chiarezza per quello che sono: più a sostegno di un traballante establishment economico che cerca di sopravvivere restando uguale a se stesso che volte alla modernizzazione del paese.