Che stavolta la partita del Colle avrebbe presentato minori insidie, rispetto alla precedente drammatica recitazione di inizio legislatura, che vide il sacrificio del “cavallo zoppo” Bersani, era un dato scontato. Dopo un biennio di mutazioni e nomadismi parlamentari (180 cambi di casacca in due soli anni), il sistema politico ha ormai assunto dei tratti che consolidano la leadership di Renzi, nel grande vuoto della dialettica maggioranza-opposizione.

La novità degli ultimi giorni è rappresentata dal fatto che, con una spregiudicata mossa tattica, il capo di governo ha rotto la parola data all’ex Cavaliere (che però lanciò per primo, a dicembre, il nome di Mattarella per il Quirinale), per virare su una figura cattolica molto gradita alla sinistra interna, che ora festeggia un suo ritorno nei giochi che contano e saluta (le illusioni hanno sempre libero corso nella politica) l’archiviazione (presunta) del Patto del Nazareno (perché perdura l’esclusione pregiudiziale verso Prodi?). Con questi oppositori, Renzi può veramente durare un’era politica.

Mai si era visto nella storia repubblicana un’elezione per il Quirinale pilotata direttamente dal presidente del Consiglio. Incontri a Palazzo Chigi, contrattazioni, lusinghe e minacce svelano un passaggio di fase con l’abbandono di antichi rituali e senso delle distinzioni dei ruoli. Se a questo attivismo irrituale del capo di governo si aggiunge l’impatto delle riforme elettorali e istituzionali in corso di definitiva approvazione, si ha il quadro di una galoppante personalizzazione priva di argini e contropoteri.

Anche in questa partita per il Quirinale, il M5S ha privilegiato l’inclinazione a starsene alla finestra. Ha risposto picche a ogni invito a contare le forze per incidere nella contesa, salvo poi tentare una grottesca rientrata nei giochi con “quirinarie” tardive, consumate a giochi praticamente fatti. Un’estraneità, quella del M5S, che non è però innocente, perché finisce sempre per favorire i giochi degli attori più forti. E su chi sia l’attore più potente in questa fase non ci sono dubbi.

L’incerta e disorientata minoranza interna al Pd si è dedicata a semplici segnali di presenza, andando alla trattativa preventiva con il governo sui temi caldi del lavoro e dei licenziamenti collettivi e concentrando la prova di resistenza su questioni peraltro non decisive e mobilitanti come quella delle preferenze. La concessione del nome gradito di Mattarella è stata dipinta come un cedimento dell’arrogante Renzi e un successo strategico della sinistra. È vero che il nome di Mattarella era presente nelle tre carte mostrate da Bersani nel 2013. Ma, appunto, era un’opzione, insieme a quella di Marini, che veniva pescata nell’area cattolica per bilanciare la destinazione di un’ex comunista a Palazzo Chigi.

Ora lo stesso nome, al di là della nobiltà e del prestigio personale, assume una valenza politica diversa, perché configura una lunga pax democristiana, con tutta la tradizione comunista, ma anche socialista, liquidata. In un Parlamento del tutto destrutturato, Renzi può contare sullo sfilacciamento dei nemici interni e sulla collaborazione esplicita dei nemici esterni.

Quello siglato con Berlusconi al Nazareno non poteva che essere un patto tra soggetti contraenti dalla potenza effettiva del tutto asimmetrica. Restituendo un ruolo politico, quale padre costituente, all’ex Cavaliere, condannato altrimenti alla marginalizzazione, Renzi aveva in cambio ottenuto dapprima il lasciapassare per la rimozione di Letta e poi la certezza del soccorso azzurro in ogni congiuntura parlamentare sfavorevole (controriforme del lavoro e delle istituzioni).

Il maltrattamento della destra di Berlusconi (ma anche di quella di Alfano, estromessa dalla maggioranza presidenziale senza segni di reazione) potrebbe nell’immediato rendere più problematico gestire quel patto. Ma rotture drastiche non sembrano visibili all’orizzonte e il fatto è che a destra non esiste una proposta politica alternativa (quale partner normale avrebbe mai consentito di votare prima le riforme elettorali e istituzionali e poi, a giochi ormai fatti, eleggere il capo dello Stato?), mentre il Parlamento torna ad antiche consuetudini trasformistiche.

Come nell’Ottocento, un uomo solo al comando dirige le danze in Parlamento e l’aula lo asseconda, finché lo sfilacciamento del sostegno o qualche trauma esterno non verrà a interrompere la bella epoca. La sola certezza è la fine del mito del sistema politico bipolare, con il trionfo del trasformismo di sempre e dove segnali di forza e momenti di debolezza si inseguono senza sosta. Nella pax trasformistica siglata dal Partito della Nazione (che può attingere a tre distinte maggioranze e, quindi, navigare tranquillo) non va escluso che proprio dal Quirinale potrebbero giungere, nell’immediato futuro, segnali di grande correttezza istituzionale.