Eppur si muove: i tempi di lavoro tornano ad affacciarsi nel dibattito pubblico, soprattutto all’estero (per ultimo il programma economico di Podemos). In Italia, la narrazione della crisi alimenta ancora l’illusione che “passata ‘a nuttata” tutto tornerà come prima: sarebbe quindi sufficiente la leva dell’intervento pubblico per creare occupazione buona e utile (Piano del lavoro, green new deal, politiche industriali), poi la ritrovata crescita economica alimenterà la domanda di lavoro e qualche robusto ammortizzatore sociale sarà sufficiente per tutelare gli esclusi (magari il reddito di cittadinanza). Il dramma occupazionale rafforza questa priorità e la riduzione degli orari appare un paradosso a fronte della platea che chiede di lavorare di più.

Si sottovalutano però due dinamiche “strutturali”: intanto, un’evoluzione economica che vede i poveri impoverirsi e i ricchi arricchirsi non è una crisi, ma un “furto con destrezza”, l’esito di quella lotta di classe non dichiarata che vede i capitalisti appropriarsi di tutti i frutti del progresso tecnologico. L’ultima riduzione collettiva degli orari risale al 1969 (sabato festivo e ferie supplementari): da allora, la produttività del lavoro è enormemente aumentata (i computer si vedevano nei film di fantascienza), ma gli orari sono rimasti stabili e i salari hanno registrato incrementi modesti. Ergo: nuove tecnologie, produzioni, metodi, si sono tradotti in profitti stellari per i capitalisti e i loro fedeli top manager, alimentando la concentrazione della ricchezza e la finanziarizzazione dell’economia.

Non solo. La rivoluzione informatica e digitale continua tuttora a “cancellare” posti di lavoro, senza che all’orizzonte si scorgano nuove “rivoluzioni” ad alta intensità di manodopera. Nel dopoguerra i contadini si sono convertiti in operai, dagli anni ottanta i figli degli operai sono stati “assorbiti” nel settore dei servizi; oggi anche il terziario registra un saldo occupazionale negativo, ma non ci sono più “polmoni” a cui affidarsi. Tant’è che la riduzione degli orari è già in atto da tempo: in tutti (tutti!) i paesi avanzati, negli ultimi decenni – ben prima della crisi – l’orario medio è in diminuzione, in alcuni casi molto rapidamente (oggi in Giappone si lavora meno che in Italia).

Il problema dunque non è “se” ridurre gli orari, ma “come” ridurli; in altre parole, occorre scegliere se governare la riduzione degli orari, indirizzandola a favore dei lavoratori, oppure lasciarla nelle mani delle imprese, come è successo sinora sotto l’ubriacatura liberista. Gli effetti di una riduzione non governata sono sotto i nostri occhi, con una crescente polarizzazione: alcuni sono costretti a lavorare sempre di più (orari contrattuali in aumento, straordinari obbligatori, taglio di pause e riposi, accanimento contro ogni tipo di assenza), mentre altri non lavorano (disoccupati, scoraggiati, Neet) o lavorano meno di quanto vorrebbero (atipici, autonomi per necessità, part time involontari, che sono ormai i due terzi dei tempi parziali).

L’ampio “esercito industriale di riserva” espone i lavoratori (tutti) al ricatto e spiana la strada al taglio di salari e diritti. L’imprenditoria italiana, che tranne meritevoli eccezioni è poco coraggiosa e lungimirante, peggiora ulteriormente il quadro, perché si concentra su produzioni seriali, con scarsi investimenti e poca innovazione di processo e di prodotto, limitandosi a “spremere” il personale in mansioni poco qualificate. Ma se questo è il contesto, quali politiche del lavoro possono aggredire la crisi sociale in atto? Il progetto collettivo proposto dalla rete di Sbilanciamoci! (vedi Gnesutta e Paci, “Sì al Workers Act, no al Jobs Act”) indica tre indirizzi complementari: 1) piani del lavoro; 2) redistribuzione del lavoro–riduzione sussidiata degli orari; 3) standardizzazione dei contratti e protezione sociale universale.

Limitandoci agli orari, una pluralità di misure possono distribuire l’occupazione e permettere anche ai lavoratori di beneficiare del progresso tecnologico, rimanendo compatibili con i costi e le esigenze organizzative delle imprese (perfino stimolando innovazione ed efficienza). Alcune iniziative sarebbero di immediata attuazione: cancellare la detassazione dello straordinario, allargare la fruizione dei congedi di cura, facilitare l’accesso al part time “lungo” e volontario, allentare i requisiti pensionistici ecc. Altre necessitano di uno sguardo a medio-lungo termine: il legislatore può avviare un percorso e “abilitare” le parti sociali alla sua concreta attuazione per via contrattuale.

Così una modulazione pluriennale delle aliquote fiscali e contributive potrebbe incentivare la riduzione graduale degli orari, giungendo dopo un periodo di transizione a istituire una “fascia oraria” ordinaria e agevolata (esempio: 25-35 ore); orari superiori sarebbero meno convenienti, anche per il dipendente, orari inferiori comporterebbero oneri maggiori solo per l’impresa, per limitare l’utilizzo dei “mini-job” a basso reddito.

Per avviare un “Piano nazionale di distribuzione dei tempi di lavoro” è necessario confrontarsi su dati, analisi, articoli di leggi e di contratti. Ma è anche necessaria la mobilitazione dei lavoratori e della società: faccenda ben più complicata, perché per appassionare non è sufficiente citare dotti studi e fredde cifre. Oggi sulla strada c’è anche uno scoglio enorme: se negli anni sessanta-settanta era diffusa la consapevolezza che salute e tempo di vita rappresentavano risorse preziose da strappare con i denti al “padrone”, dopo tre decenni di egemonia culturale liberista il denaro ha assunto enorme importanza anche nella scala di valore di tanti lavoratori. Così i richiami alle buone ragioni collettive rischiano di apparire slogan vuoti a quanti al sindacato chiedono soltanto la tutela del reddito, anche a costo di lavorare di più.

Un secolo fa, operai e operaie tessili americani scioperarono all’insegna di uno slogan che ha accompagnato a lungo il movimento sindacale: “Vogliamo il pane e anche le rose”. Benché di pane ce ne fosse molto meno di adesso, avevano ben chiari i loro obiettivi: per il reddito non erano disposti a sacrificare l’intera esistenza, la bellezza della vita data dalle sue dimensioni non mercificabili (relazioni, cultura, natura…). Ci interessano ancora le rose? Siamo ancora in grado di scaldare i cuori per qualcosa che non sia il denaro? Ha vinto senza appello il modello antropologico dell’homo oeconomicus, ora produttore ora consumatore, o la complessità della vita umana può ancora riemergere a consapevolezza collettiva?

Se le crisi sono anche occasioni di cambiamento, i tempi di lavoro e di vita potrebbero essere il terreno su cui incrinare la cultura dominante, riprendendo il cammino interrotto verso un orizzonte di giustizia e benessere.

Scheda: Marco Craviolatti