È vestita di rosso, Susanna Camusso, quando va alla tribuna per chiudere il XVII Congresso della Cgil. Il rosso, simbolo antico di speranza, simbolo di appartenenza, colore di quelle due parole, “compagne e compagni”, che il segretario generale della Cgil pronuncia subito, non casualmente – viste le “statistiche” apparse in questa giorni sui media – all’inizio del suo intervento.

Un discorso che è partito subito dal tema, discusso non solo a Rimini, dello stato di salute della Cgil, tema spesso adoperato in maniera strumentale, come se il sindacato fosse un organismo alieno, estraneo alla realtà in cui vive.

La Cgil non è il partito liquido di Renzi o Grillo, è un sindacato, il più grande sindacato dei lavoratori. Se il lavoro non c’è, se aumentano i disoccupati, “la Cgil non può stare bene”. Il punto di partenza di qualsiasi sensata discussione sul lavoro e la sua rappresentanza non può essere che questo: la grande trasformazione, “già avvenuta”, che ha cambiato in profondità il paese, la sua struttura produttiva, divorando e precarizzando il lavoro. Una trasformazione che ha interessato, con l’economia, la sfera stessa della politica. E che non ha prodotto solo l’eclisse della concertazione – finita da tempo, come si è ricordato più volte – ma degli interlocutori di sempre del sindacato: novità – non certo positiva – nella già cattive nuove della crisi.

Si è chiusa un’epoca. Ma questo, se significa interrogarsi sulla scatola degli attrezzi del sindacato, non mette in discussione, anzi dà più forza all’idea di un Piano del lavoro: alla proposta che la Cgil ha lanciato nella conferenza di programma dei primi del 2013.

È il lavoro il paradigma della crescita: “O si crea lavoro o la crescita non ha senso”. E creare lavoro, appunto, significa rimettere in moto gli investimenti pubblici da un lato, puntare con forza alla dimensione territoriale dall’altro: produrre un circolo virtuoso in cui le domande dei cittadini possano mettere in moto – si pensi al ciclo dei rifiuti – le occasioni per la nascita di imprese, ricerca e occupazione. Condizione prima – fatto non secondario – per l’emergere di un modello culturale diverso da quello, dominante, del consumo come condizione dell’identità della persona. Questo è il Piano del lavoro: un’idea di cittadinanza, oltre che di sviluppo, capace di porre un argine al progressivo impoverimento del paese, dare gambe alla lotta contro le crescenti diseguaglianze e invertire il pessimo trend delle regioni meridionali.

Un’impresa complessa, com’è evidente, che richiede un sindacato forte e radicato. “Vorrei ricordare – ha osservato Camusso pensando all’accordo Buozzi-Mazzini del settembre ’43 – che uno dei primissimi atti dell’Italia già liberata fu la ricostituzione delle Commissioni interne. Quando si dice che i permessi sono un costo e bisogna tagliare, si afferma un teoria più generale: è la democrazia, considerata un costo, che bisogna tagliare!”. I grandi cambiamenti – come insegna la storia delle lotte operaie, fattore decisivo delle trasformazioni dell’organizzazione del lavoro – sono il frutto della democrazia, della valorizzazione dei saperi diffusi, non “della mente illuminata dei gruppi dirigenti”. È da qui che si deve partire per la ricostruzione dei legami di solidarietà. “La destrutturazione del lavoro non è stata un fatto transitorio”. E se il precariato è così vasto e diffuso, il tema dei diritti universali è assolutamente centrale. “Si può fare tutto per legge? Tutto questo non pone problemi nuovi anche per la struttura contrattuale così come l’abbiamo immaginata?”. Bisogna provare a sperimentare, allora, senza avere paura di mettere in discussione vecchi schemi.

E di uno schema consolidato, è parso dire Camusso, sembra essere anche il modo in cui – il riferimento era all’intervento di Maurizio Landini – è stata affrontata la vertenza delle pensioni proposta nella relazione introduttiva. “Si può pensare di Cisl e Uil tante cose, ma davvero si crede sia possibile una vertenza della sola Cgil?”. Le parole dette da Bonanni e Angeletti “sono un avanzamento importante”, non si può far cadere nel vuoto la loro disponibilità. Così come non si può ritornare – sempre a proposito di pensioni – al punto di partenza: la strada è quella di una vertenza capace di costruire un prospettiva solidale, il traguardo di una pensione decente per tutti.

Il rischio dello schematismo, ancora, è presente anche in alcune delle riflessioni sul salario minimo. La soluzione non può essere quella di perseguire l’obiettivo ognuno nel proprio paese, la soluzione è una norma europea: “Costruire un punto minimo che valga per tutta l’Europa, che sottragga alle multinazionali la possibilità di fare dumping”. Una questione, com’è evidente, che rimanda al tema della contrattazione inclusiva e del lavoro povero, lungamente affrontato nella relazione introduttiva. E insieme, su un altro versante, della contrattazione sociale, decisiva per il Mezzogiorno e l’articolazione del Piano del lavoro.

È una situazione inedita, in conclusione, quella in cui si sviluppa oggi l’iniziativa del sindacato. Un contesto che chiede “di cambiare, di scommettere sull’innovazione, di decidere in che verso andare partendo dagli strumenti che abbiamo a disposizione”. Fondamentale, guardando appunto alla strumentazione, il Testo unico sulla rappresentanza. “Ci siamo confrontati – ha ricordato Camusso – e abbiamo fatto la consultazione”. Ora non si può continuare all’infinito. In Cgil si è sempre discusso, si continua a discutere anche del ’75 e dell’accordo sul punto unico di contingenza. “Adesso occorre un passo avanti. Bisogna sapere che ci sono degli accordi che vanno applicati, nel caso specifico da estendere ad altri settori. Poi possono sempre essere migliorati”. Nella consapevolezza, anche qui, che qualcosa è cambiato: che “c’è tutto un campo in cui lavorare: l’elezione delle Rsu e l’affermazione della Cgil”. “E sapendo che c’è un’etica dell’organizzazione. E' lo Statuto confederale”.

Democrazia, partecipazione, modalità della discussione all’interno della Cgil, formazione delle decisioni. Anche qui il sindacato di Corso d’Italia non deve adeguarsi allo stile dominante, al leaderismo e alla personalizzazione della politica. “Non è vero che esisti solo se sei segretario generale”. Non sono le primarie, se la vita democratica dell’organizzazione ha necessità di essere arricchita, la strada giusta. “Noi pensiamo piuttosto a una riduzione del ruolo del segretario generale, a una maggiore responsabilità collettiva”. Che è il modo migliore “di interpretare le tante anime del mondo del lavoro”: le tante anime che da sempre dànno forza, ricchezza alla “casa comune” della Cgil.