Cercate di immaginare 45 milioni di bambini indiani, 10 milioni di piccoli pakistani, 3 milioni di filippini, 7 milioni di brasiliani, 14 milioni di nigeriani. Non è finita. Ci sono ragazzini del Bangladesh, bambine rumene e tailandesi, frotte di cinesi. Ancora, ancora.  Fino ad arrivare ad una cifra enorme, ma tragicamente approssimativa, come sono sempre i numeri che definiscono i drammi dell’umanità. Ecco il computo totale: 215 milioni. Tanti sono i bambini che, ancora oggi, nel mondo sono costretti a lavorare per vivere. Non mancano gli italiani: 400 mila minori, nascosti nel Sud più povero, ma anche nell’opulento Nord-Est.

Immaginarli tutti, i volti di questi bambini, è impossibile. E qui comincia la nostra impotenza, nell’incapacità di “vedere” milioni di piccoli schiavi. Così, paradossalmente, più grande è la tragedia, più debole la reazione che essa suscita. E scatta il meccanismo dell’indifferenza che le iniziative dell’Unicef, delle istituzioni e dei sindacati in questi giorni cercano di disinnescare.

Il momento è favorevole. E’ datata 20 novembre 1989 la Convenzione sui diritti dell’infanzia, approvata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. Il testo è relativamente recente, ma è la modernità, non l’arretratezza, che produce lavoratori in pantaloni corti, bambini  che non sanno che cosa siano il gioco, né l’istruzione. 

Guardiamoli in faccia i più sfruttati. Soffermiamoci sulle immagini, oltreché sui dati, degli ultimi i rapporti ufficiali. Ci sono nepalesi al telaio, sudamericani incredibilmente diritti sotto carichi di mattoni, pakistani bianchi di polvere, nelle cave di pietra. Milioni di storie. Quelle dei bambini di Katmandu che tessono tappeti pregiati (più piccole sono le mani che lavorano, più prezioso è il manufatto) e passano sedici ore in stanze buie, soffocati dalla lana, tenuti in vita da un piatto di riso che, spesso, è l’unica paga.

Guadagnano soltanto cibo anche le bambine rumene, spinte sulla strada a meno di dieci anni, in cerca di un turista straniero che le voglia per una notte. E’ migliore o peggiore la loro sorte, rispetto a quella delle bambine indiane “impiegate” nelle fabbriche di scatole in latta? Queste ultime si riconoscono per le mani corrose dall’acido solforico che usano durante  la lucidatura. Bambine con la pelle bruciata, condannate a respirare  piombo, per venti ore al giorno.

Quanto vale, poi, la fatica, talvolta la vita, di un bambino occidentale? In Italia, i minori che lavorano sono circa 400 mila. Nella classifica della vergogna, primeggiano Campania, Sicilia, Puglia, Lombardia.

Si deve alla Cgil la prima inchiesta completa sul fenomeno. Dall’allarme lanciato da Sergio Cofferati, dopo un viaggio in India (“Guardate che i bambini lavoratori esistono anche da noi!”), strada ne è stata fatta. Oggi sappiamo chi sono, dove sono e che cosa fanno i minori che lavorano nel nostro Paese. I dati raccolti  dalla Cgil  trovano conferma negli studi di Save the Children, la rete di associazioni umanitarie che dal 1919 lotta in difesa dei diritti dell’infanzia. E sappiamo che i nuovi schiavi sono soprattutto maschi, appartenenti a fasce sociali vulnerabili, spesso stranieri, residenti con un solo genitore o in famiglie numerose.

A Roma, i minori vengono utilizzati soprattutto nella ristorazione, come pizzaioli, baristi, camerieri. Non manca, tuttavia, chi sfrutta i bambini nell’edilizia, nell’artigianato e nelle attività illegali, dal borseggio alla prostituzione.

Nella capitale, emerge dai dati di Save the Children, 40 minori su 62 lavorano da 6 a 9 ore al giorno. E, se sono italiani, abbandonano la scuola più facilmente degli stranieri. A Napoli, 40 mila bambini lavorano. Negli ultimi dieci anni, il fenomeno è cresciuto del 12 per cento. Ci sono baby-camerieri, ma anche “muschilli”, moscerini, ossia minori utilizzati dalla camorra come corrieri. In Calabria i ragazzini vengono impiegati soprattutto nell’agricoltura: oltre 2 mila lavorano nella sola provincia di Reggio.

Non bastano più le leggi a tutelare l’infanzia. Non bastano le convenzioni internazionali. Dietro ad ogni bambino che lavora c’è sempre una famiglia ridotta a vendere quello che ha: il figlio. Il metodo di reclutamento, ovunque, è lo stesso. I piccoli vengono presi in prestito dai genitori, in cambio di denaro e di una promessa: torneranno a casa, nel giro di due anni. Non è mai così.

Se, dunque,  la causa principale del lavoro minorile è la povertà, unico antidoto appare l’istruzione. E riecheggia quello slogan della Cgil (“Gli adulti a lavorare, i bambini a studiare”) che, qualche anno fa, non venne del tutto compreso.

Ma quanto costerebbe, a livello mondiale, rendere l’istruzione un diritto per tutti i bambini? Diecimila miliardi di dollari l’anno. Una cifra pari a quella che si utilizza,  oggi,  per sostenere quattro giorni di spese militari.

Troppo? Rispondiamo dopo aver guardato un’ultima fotografia, quella di Iqbal Masih, bambino pakistano, volto di tante campagne Unicef, lavoratore incatenato ad un telaio,  ucciso dalla “mafia dei tappeti”. Oggi il viso di Iqbal è quello di tutti i bambini sfruttati. La curva delle sue spalle descrive il peso portato da questa piccola umanità. E la luce dei suoi occhi continua a rifletterne la fierezza.