“Che cos’è la letteratura, non lo so. Direi proprio senza nessuna ambiguità, senza nessuna ironia. Però so che cos’è la letteratura per me. La letteratura per me è il solo modo, mentre per altri è uno dei tanti modi per rispondere, o corrispondere, alle provocazioni della realtà. Alle provocazioni quotidiane che noi subiamo, che vediamo, che seminiamo, che partecipiamo dalla e nella società. Quindi non si dà letteratura, secondo me, se non si è ben dentro, con piedi, mani, braccia, naso, occhi e orecchie, nella società. Nel quotidiano, per la strada, anziché dentro alle stanze con le finestre chiuse. Poi ciascuno sceglie a suo modo le soluzioni precise”.

Con queste parole Roberto Roversi mi accolse nella sua biblioteca antiquaria di Via dei Poeti numero 4, a Bologna. Due stanzoni polverosi, pieni zeppi di volumi antichi ammonticchiati alla rinfusa, insieme a locandine sgualcite e paccottiglia di ogni genere. Era il 2005, ed era la terza volta che lo incontravo, l'ultima. Se ne stava seduto in un angolo. Era un uomo piccolo e fragile, pieno di rughe e con una bella barba bianca ad incorniciare un sorriso mite. Era  diverso da come me l'ero immaginato leggendo le sue poesie, piene di sdegno e di vigore. Eppure quei suoi occhi liquidi, guizzanti e mai in pace, lo lasciavano trapelare quel vigore. E poi c'era la forza delle sue parole, anche se erano soffiate via leggere, spinte solo da un filo di voce. Questa intervista faceva parte del lavoro preparatorio per un film documentario che non vide mai la luce. E' rimasta chiusa in un cassetto per anni. Oggi, il giorno dopo la sua morte, l'ho tirata fuori. Forse per ringraziarlo.

Da dove nasce la sua poesia?

Roversi: Il mio lavoro nasce dalle esperienze. Dall'aver attraversato e per l’aver attraversato come generazione, e come privato dentro a una generazione, un periodo della storia assolutamente drammatico. Un periodo della storia che nei suoi dettagli mi ha insegnato, anche letterariamente, più dei libri che andavo via via leggendo. Quindi ho sempre avuto per i libri una sorta di amore, ma ho sempre suddiviso i libri, e quindi la letteratura in quanto tale, tra i libri che contengono opere che si possono leggere in combattimento, e quelli che invece si possono leggere, non si possono non leggere che a tavolino. Rispettabilissime entrambe, ma io preferisco quelle che si possono mettere in un taschino della giberna e poi cavare fuori anche quando si è seduti nel fango. Così, per avere un minuto, un minimo di conforto. Ci sono tutta una serie di grandi letterati, di grandi scrittori, di grandi poeti, che letti nel momento di quiete sociale, anche se non di una quiete personale, esaltano e risaltano ma che non funzionerebbero nella fattispecie da me indicata. Quindi lo scaffale mio prediletto è non dico di scrittori di guerra, ma di scrittori per la guerra. Non è vero che tutti i grandi classici siano per la guerra.

Scrivere è quindi un atto politico?

Roversi: Il termine “politica” adesso fa rabbrividire, quindi eviterei di usare delle terminologie estremamente pericolose. Direi che è un atto che non ti sottrae mai dal dover fare i conti con la realtà, la realtà fuori e dentro la società, cioè fuori da te stesso. E’ uno dei modi di intendere la letteratura. Senza voler codificare nulla, ma partecipando di una scelta che ti mette sempre in continua e drammatica discussione con la giornata che vivi. E' una chiave di lettura, un’indicazione metodologica molto poco condivisa, ma per me funziona ancora. E mi dà buoni aiuti anche a livello di comportamento generale. Mi aiuta intellettualmente, sentimentalmente e operativamente, direi. Quindi, si potrebbe dire che la letteratura è intesa da me come un fischio che viene fatto a chi rimane un po’ indietro sul viottolo che si sta percorrendo, per avvertire i compagni che si sta arrivando o che ti aspettino. E’ un invito ad una partecipazione, ad una attesa, ad una non liberazione di partecipazione.

La letteratura, però,  è stata anche un lavoro. Per una vita ha fatto il libraio.

Roversi: Il fatto di esser diventato libraio e libraio antiquario è stata un’occasione abbastanza improvvisa, improvvisata, raccolta rapidamente con una sorta di entusiasmo giovanile ma senza le previsioni di farla durare. Invece, purtroppo, o per fortuna, è durata. E quindi è servita da supporto, da sostegno, è servita da esperienza via via quotidiana, che veniva rovesciata da una parte dentro al lavoro librario e dall’altra dentro al lavoro di scrittura. Tanto è vero che da molti anni ho sempre accompagnato i libri che venivano venduti dalla libreria e spediti all’estero, in Giappone, in America, in tutta Europa, qualche volta anche in Australia e in Sudafrica, ecc…, con una poesia. Li salutavo.

Infatti ne ho scritte moltissime di poesie. Certi libri che partivano, ad esempio, per il Giappone e che avevano qualche caratteristica per l’edizione particolare, per la legatura o perché portavano alcune note manoscritte o qualche dedica dell’autore, non sarebbero mai più tornati in Italia. Lasciavano la Patria, lasciavano il luogo della loro infanzia, dove erano nati, in cui si erano formati. E quindi vibravano. Li ho sempre sentiti come contenitori di qualche vibrazione anche fisica, i libri. E allora li salutavo e per non farli soffrire troppo nel viaggio, per fargli sentire una voce amica. Li accompagnavo con un bigliettino in cui scrivevo una poesia, di commiato, di saluto, di ringraziamento. Se il libro l’avevo letto, se il libro mi era stato caro, se mi era servito o anche se non mi era stato utile in qualche modo, però mi aveva accompagnato, avendolo visto per vario tempo negli scaffali della libreria. Quindi avendolo avuto sotto gli occhi come un gatto, un cane amabile, come una persona anche viva, spesse volte.

Ad un certo momento il libro è diventato qualcosa di più di un puro tramite di commercio, di lavoro. E’ diventato qualcosa di ondivago, non si capisce bene, fra ciò che veniva venduto, ciò che veniva compatito, ciò che veniva salutato, ciò che veniva rimpianto. Era immerso in una sorta di melassa sentimentale che è tuttora in atto. Io li vedo ancora  in questo modo, i libri . Mi è accaduto di scrivere anche, in alcune occasioni, che mi piacerebbe, e non mi è mai capitato, non restare chiuso, ma farmi rinchiudere consapevolmente in uno dei grandi saloni di una grande biblioteca. All’inverno e di notte, in quel buio freddo dei grandi stanzoni in cui i libri sono depositati. Io penso, ne sono convinto, che non sono lì inerti, inermi, taciturni, dormenti, ma sono vivi, conflittuano fra di loro, parlano, vibrano come degli uccelli che non trovano requie. Litigano un libro contro l’altro, oppure si abbracciano, si tendono le mani. Allo stesso modo, adesso non vorrei esagerare e farneticare, ma questa è un po’ la mia convinzione, quasi così come Tommaso Campanella, il frate nelle prigioni terribili del Sant’Uffizio, che tendeva dalle grate le mani all’altro frate giovane di cui era innamorato e che era in una cella quasi di fronte a lui, invocandolo amorosamente in questo turpe cielo delle prigioni papali. I libri, in questo senso, non mancano di un loro destino vitale che va aldilà della loro confezione pratica.

Lei non ha scritto molto sulla seconda guerra mondiale e sulla Resistenza, anche se ha partecipato direttamente a quegli avvenimenti.


Roversi: Io ho scritto “Dopo Campoformio” proprio legato a quel periodo. E “Il tedesco Imperatore”, per esempio, è in breve, dal mio punto di vista, una registrazione di una vicenda e di un passaggio attraverso mesi ed anni drammatici. E anche “Caccia all’uomo”, come è detto anche nel risvolto del libro, è proprio il mio progetto, magari mal disposto, poco convincente, che doveva documentare dal mio punto di vista le vicende della Resistenza. Però non passate attraverso una scrittura neorealistica, cioè che ancorasse il discorso direttamente alle cose accadute, ma ponesse l’interspazio in mezzo di un po’ di tempo, che le coprisse un pochettino, appena appena di polvere, per renderle meno assillanti e per renderle più determinate in profondità.

Una delle indicazioni che spesse volte do, e che mi sono portato come esperienza precisa, come insegnamento di base lo collegherei a quello che mi disse un operaio. Eravamo seduti in alta montagna su due massi, e semplicemente mi disse: “Questa cosa non finisce qui”. Ora, “questa cosa non finisce qui” poteva essere in un primo momento intesa “questa lotta armata” deve continuare, e quindi dare retta a quelli che pensavano che occorreva prendere le armi per conquistare il potere in Italia. In realtà non era questo che intendeva. Con “non finisce qui”, voleva dire che in certi settori, soprattutto dell’Italia settentrionale, la classe di base, la classe contadina e operaia, quella sempre un po’ prevaricata e sottoposta agli arbitrii, poteva gestire il proprio destino. Aveva preso le armi e combatteva per cercare di ottenere dei risultati positivi per se stessa, superando le contraddizioni in atto, proprio perché aveva combattuto per ottenerli. Questo mi accompagno subito, anche dopo, cercando di intendere che il portato della resistenza non era solamente un fatto da leggersi in chiave armata.

Era un dato che ci doveva accompagnare a leggere via via la realtà che avevamo di fronte, pure scontrandosi con le contraddizioni che d’altra parte venivano proposte nello svolgimento del dopoguerra. Io credo tuttora che la Resistenza sia stata un momento molto esaltante, e anche molto terrificante di scontro come lotta civile, come contrasti di parte, come tensioni che venivano conquistate attraverso fatiche, sangue, lotte a non finire, tragedie a non finire. Ma che sia stata anche promotrice di questi dati che hanno accompagnato varie generazioni dopo e che non sono consumati. Quindi non sono stati consumati dalle parti che emergevano, poi che si contraddicevano, oppure scomparivano. Quindi sono un lievito da utilizzare tuttora come chiave di lettura della realtà, come stimolo. Sono piccoli massi, però abbastanza numerosi, che rotolano dentro alla realtà della nostra società e della nostra cultura.

Questo era proprio l'obiettivo di “Officina”: capire cosa stava succedendo.

Roversi: In modo ancora più preciso: cos’era successo. Questa era la domanda. Magari limitata, magari collocata in un contesto meno attivo, meno in movimento. Ma per me abbastanza importante e impellente per riordinare le idee per partire da un punto concreto. Dovessi dare, non dico un giudizio, ma una conclusione dal mio punto di vista, la rivista ha operato anche abbastanza utilmente per far capire cos’era successo. Ma poi, a un certo momento, quando era già venuto il tempo per passare a spiegare “cosa sta succedendo”, anche se aveva cominciato a formulare qualche cosa, si è bloccata, si è fermata. Quindi è rimasta una operazione a metà.

L’avvio è stato abbastanza inquieto. Tornato sotto gli occhi, dentro i nostri pensieri. Dico nostri, miei e di Leonetti a cui in quel momento ero abbastanza vicino, perché abitava a Bologna. Ebbe una partenza incerta. Basti dire, mi sembra di non averlo mai detto, che proprio mentre cercavamo di raccogliere le idee operative, una sera Giuseppe Guglielmi con cui ero in rapporto venne e accompagnò a casa mia una sera Luciano Anceschi, quando ancora non aveva avviato “Il Verri”, per parlare. Accadde che dopo 10 minuti di colloquio questa possibilità di collegarci in maniera operativa insieme era caduta. Dopo non ci vedemmo più. Il secondo rapporto lo avemmo con Ricciardi, che è stato dopo insigne cattedratico all’Università di Bologna, italianista, uno dei primi traduttori di Ezra Pound e di tanti altri. Lui era con noi nei primi colloqui, dopo questo incontro con Anceschi. Dopo venne l’idea, e fu un’idea di Leonetti, di rivolgerci o avvertire Pasolini, col quale, quando ancora eravamo al liceo negli anni ’40, avevamo avuto il progetto di fare una rivista il cui nome doveva essere “Eredi”. Leonetti avvertì Pasolini di questo nostro progetto, e Pasolini venne immediatamente a Bologna, aderendo… E da lì siamo partiti.

La sua ricerca di nuovi temi e nuovi strumenti comunicazione poi ebbe un'improvvisa accelerazione col movimento studentesco.

Roversi: Sì, tanto è vero che fui perfettamente vicino a loro. Ho diretto sia pur brevemente “Lotta continua”, nel momento abbastanza cruciale del delitto Calabresi, dopo che l’aveva diretto in precedenza Panella e dopo Pasolini, visto che in quel momento non riuscivano ad ottenere nessun intellettuale che si arrischiasse a diventare responsabile di una pubblicazione così immersa in un mare in tempesta. Lo feci semplicemente per confermare la necessità della libertà di stampa, e assunsi questo incarico senza condividerne in pieno le motivazioni tattiche. Perché le motivazioni da cui si muoveva il movimento studentesco e poi via via le frange più violente erano fondamentalmente da condividere. Direi senza nessuna correzione. Quello che invece era assolutamente pericoloso e addirittura vistosamente, drammaticamente pericoloso era la metodologia seguita per esercitare in chiave politica questa lotta.

La violenza che diventava sempre più esplicita era un modo per uccidere il movimento, anziché per farlo progredire. La violenza dell’estrema sinistra, dei gruppi, giustificava, poi si è visto, la violenza del Potere. E la violenza del Potere, quando è organizzata, è sicuramente molto più prepotente e determinata di quella dei gruppi sciolti, liberi, che hanno poca possibilità di avventarsi in modo molto determinante contro il Potere. Cercare di metterli in guardia per evitare questa sorta di suicidio e per dirottarle verso la direzione della gestione della comunicazione, dei linguaggi, altrettanto drammatica, altrettanto complicata, altrettanto pericolosa, ma altrettanto nuova, è stato un impegno quasi nevrotico. Un impegno che come tanti altri non ha dato nessun risultato, perché poi confluì nella violenza indiscriminata che servì a poco, se non a niente nella sostanza. Se non a creare dei guasti.

Questa ricerca la portò poi a scrivere testi per musica leggera, con i tre album con Lucio Dalla. Qual era l'obiettivo?

Roversi: Era un passaggio della mia ricerca. Non è che fossi andato giù di testa. La comunicazione diventava a mio parere estremamente importante. La gestione diventava comunemente importante, l’utilizzazione e la verifica dei nuovi linguaggi era altrettanto importante. Quindi il linguaggio della canzone diventava importantissimo. A quei tempi le canzoni erano canzonette. Quando facemmo il primo disco e Dalla cantava di fronte a 200 persone, scrissi: “Con la canzone si può rifare il mondo”. Fecero dei pernacchi, sghignazzavano. Tutti i cantanti importanti, anche della cultura ufficiale, sghignazzavano come dei matti. In effetti ero convinto che si potesse intervenire a concorrere, nell’ambito di una canzone ovviamente, a cambiare il mondo. Perché la classe operaia quando cantava nelle sue manifestazioni cantava mettendo delle parole molto approssimate sulla musica di Sanremo. Mentre i contadini, quando erano ancora in atto, una cultura sbriciolata proprio nei decenni precedenti, avevano le proprie favole, avevano le proprie canzoni, avevano una autonomia culturale assoluta, quindi erano autonomi rispetto al potere. Cantavano magari dentro le stalle, però cantavano. Cantavano nelle loro adunate, però cantavano. Con le loro parole, quando dicevano “Boia dei padroni, boia dei signori”, dicevano con le loro parole.

Gli operai invece no. Mettevano delle parole inventate, un po’ approssimate sulle musiche di Sanremo. Allora mi sembrava fosse necessario recuperare anche la canzone nella direzione di una lotta di classe. E quindi fare un disco, come fu fatto. Abbiamo fatto 30 canzoni, tre dischi con 30 canzoni che fossero organiche. Non un insieme di canzonette ma che fossero collegate. Abbiamo cantato per la prima volta lo smog, l’inquinamento dell’aria. Abbiamo cantato l’inquinamento e l’affollamento, gli ingorghi nelle autostrade. Abbiamo cantato tutte queste cose. E bisogna dire la verità: Dalla è stato estremamente bravo e impegnato nel vincere le contraddizioni di queste aziende di produzione che erano internazionali e che non ne volevano sapere. Infatti vendevamo pochissimi dischi. Però l'abbiamo fatto. A un certo momento, però, le difficoltà diventavano sempre più impellenti e credo che ebbe delle aggressioni varie volte sui palchi mentre cantava in diretta. Allora disse: “Vogliamo continuare, allora vieni anche tu a cantare sul palco insieme a me”. Siccome non sapevo assolutamente cantare, non era il caso. Non per paura, intendiamoci, ma era l’incapacità tecnica, lasciamo perdere. Subito dopo col nuovo disco Dalla passò dalle 1.000 copie a100.000.

La sua poesia, però, continua ancora oggi ad essere uno specchio della realtà.

Roversi: La poesia che rappresenta la realtà mi sembra un po’ troppo vanitoso. Non sono così presuntuoso. La poesia cerca con le sue possibilità, coi suoi strumenti, coi propri mezzi di immergersi dentro la realtà e di cogliere quel tanto che sa, quel tanto può, quel tanto che è dovuto. Tanto da poter dire a un certo momento: si è fatto quel che si doveva coi mezzi che si aveva in mano e con le forze che si aveva in testa, nel cuore. Quel che si doveva come si poteva, senza presunzione, con la convinzione, però, di non aver cambiato campo tanto facilmente. Di aver mutato, di aver aggiornato ciò che si pensava, di aver modificato giustamente, o aver cercato di modificare, i propri numerosi errori, ma di non esser venuti meno ad una continuità di direzione riflessiva, che ci ha accompagnato per tutta la vita e che non mi sembra sia tuttora degna di venir meno. Detto tra parentesi, credo anche che sia, ma questo lo dico sussurrandomelo nell’orecchio, che sia ancora necessaria. O almeno è questo che mi sostiene nel mandar avanti la mia scrittura a penna o a matita.