“Sono contrario all’ergastolo ma favorevole alla pena di morte: se devi stare tutta la vita qui dentro, allora è meglio morire”. Sono le parole pronunciate dal detenuto protagonista del film Il gemello: parole forti, che restano impresse e si possono indicare come simbolo del 69esimo Festival di Venezia, chiuso sabato 8 settembre al Lido. La mostra lagunare ha assegnato il Leone d’oro a Pieta del coreano Kim ki-duk, la storia nera di uno strozzino che ritrova la madre scomparsa. Un premio all’estetica del cinema orientale – dunque -, ma è stata anche una manifestazione segnata dall’attualità, percorsa da molte tensioni politiche e sociali dei nostri tempi.

Tanti film impegnati hanno acceso la mostra nell’arco della settimana. Tra questi c’è proprio Il gemello di Vincenzo Marra, sezione Giornate degli autori: il regista è entrato nel carcere di Secondigliano per seguire la vita di un giovane detenuto, gemello di due fratelli e condannato per rapina. Il ragazzo compie attività quotidiane, dalla pulizia della cella fino all’incontro con i famigliari, parla con lo psicologo e gli agenti della polizia penitenziaria. Riflette sulla propria condizione, cosa ha sbagliato e cosa farà domani. Non c’è nessun giudizio né voglia di stupire: il documentario descrive la situazione e, naturalmente, parla delle condizioni delle carceri italiane e il problema delle condanne. E’ giusto infliggere una pena severa a un giovane? Come reinserire i detenuti? Sono le questioni che scorrono sottotraccia nel documentario di Marra, il migliore film italiano visto al Lido, che ha ottenuto l’accoglienza positiva della stampa e del pubblico.

Un grande applauso ha accolto anche La nave dolce, documentario di Daniele Vicari. L’autore di Diaz ha raccontato un’altra storia italiana: lo sbarco della Vlora l’8 agosto 1991, la nave carica di migranti albanesi che arrivò nel porto di Bari. Fu la prima volta che l’Italia si confrontò davvero con il dramma degli sbarchi. Molti anni dopo, il regista è andato a ritrovare i protagonisti di quella esperienza, per farsi raccontare il “viaggio della speranza” all’insegna della fame e la sete. Tra immagini di repertorio e ricordi dei cittadini albanesi, vediamo uno spaccato potente: Vicari si propone come interprete della Storia italiana recente, scegliendo un altro momento significativo dopo il massacro al G8 di Genova. Le ombre sempre inquietanti (la violenza della polizia, l’incapacità di accogliere i migranti) sono rievocate dal regista senza fare sconti.  “ Il presupposto è avere una storia interessante, rischiare qualcosa e convincere a vedere il tuo film - ha detto Vicari -, anche se non è mai facile trovare i fondi”.

Al centro del dibattito ovviamente Bella addormentata di Marco Bellocchio, il film in Concorso sul caso di Eluana Englaro. In realtà – però – la storia sfiora soltanto la vicenda della ragazza, che scorre in sottofondo in televisione e sui giornali: è piuttosto una fotografia del nostro paese, un intreccio tra diverse posizioni (i sostenitori del testamento biologico contro il movimento per la vita) che solleva questioni complesse. Come sempre Bellocchio mette al centro la struttura narrativa, trovando una metafora notevole giocata sulla fiaba della bella addormentata: non solo Eluana, tante sono le “belle addormentate” che incontriamo nel film, e tutte prendono strade diverse.

Il vero film sul precariato è stato Gli equilibristi di Ivano De Matteo, presentato nella sezione Orizzonti. Il protagonista, interpretato da Valerio Mastandrea, è un “nuovo povero” nell’Italia di oggi: dopo la rottura con la moglie è costretto a occuparsi dei figli, ma siamo nell’epoca della crisi economica e della disoccupazione. Presto ha le tasche vuote e si ritrova a dormire in macchina, il passaggio è naturale.

E’ stato anche il festival delle rivolte arabe, con tante pellicole che hanno trattato l’argomento da diversi punti di vista, dall’Egitto alla Tunisia, dalla Libia all’Arabia Saudita. Impossibile citarle tutte, ci limitiamo allora a segnalare It was better tomorrow di Hinde Boujemaa (Fuori concorso): siamo in Tunisia dopo la caduta di Ben Ali, la protagonista Aida Kaabi sta provando a rifarsi una vita. Poverissima e madre di famiglia, Aida vaga per i quartieri di Tunisi sventrati dagli scontri alla ricerca di un tetto dove abitare. La donna non sembra rendersi conto che c’è stata una rivolta, il suo problema principale è trovare una casa e un pasto per i figli. Il documentario di 74 minuti segue le sue peripezie e, deviando dal centro del discorso, ricorda un punto fondamentale: sullo sfondo della “primavera araba” c’è sempre la gente comune, i cittadini normali che soffrono.

Infine il film più politico è stato The company you keep di Robert Redford, anche questo Fuori concorso. Nelle mani di un maestro del cinema americano, si racconta la storia di un avvocato di Albany: all’apparenza un uomo tranquillo, che vive con la figlia di 11 anni e esercita la sua professione. In realtà è un ex membro dei Weather Underground, gruppo pacifista di estrema sinistra accusato di attentati nel corso degli anni Ottanta (in particolare una rapina in banca). Quando viene scoperta la vera identità dell’uomo, Redford inizia la sua fuga. E dovrà rintracciare i vecchi “amici” per riuscire a cavarsela (“La persona che sei dipende dagli amici che hai”, dice il titolo originale). Rispettando sempre le regole del thriller, è una splendida pellicola che tratta a viso aperto la questione scottante: gli ex terroristi tornati in società, l’obbligo di fare i conti con le proprie azioni. Qui è una questione americana – certo -, ma non mancherà di evocare i fantasmi della vecchia Europa, i terrorismi di casa nostra e le porte mai chiuse sul passato.