... Le letture dei poeti hanno poi qualcosa di speciale per la loro consueta intensità; per il rapporto denso che permettono di avere con la lingua, così diversa da quella della quale ci serviamo ogni giorno per comunicare; per le capacità conoscitive che attivano, funzionando come misteriosi percorsi nel rapporto con il mondo che si viene scoprendo. Così, la morte di un poeta che si è frequentato negli anni della giovinezza, poi facendosi a lungo accompagnare dalla sua voce, è un trauma interiore, l’interruzione di un dialogo silenzioso.

Giovanni Giudici se ne è andato in un giorno dello scorso maggio (era nato nel 1924), i giornali ne hanno parlato pochissimo: ciò comincia a diventare un indice di qualità. Era un poeta che aveva messo la vita in versi (come recitava il titolo di una sua raccolta), fino a far coincidere l’autobiografia privata con un’“autobiologia” comune a tutti noi (Autobiologia è il titolo di un’altra sua raccolta di versi). Aveva messo in versi la storia di uno di noi attraverso i fatti della civiltà italiana: dall’educazione cattolica (una sua antica raccolta anche questa) degli anni cinquanta alle illusioni del boom e alle disillusioni dei nostri tempi.

Uno dei suoi ultimi libri, echeggiante il tema ricorrente e insistente della vita e del vivere, ancora nel titolo faceva immaginare a quanto poco si fosse ridotto l’orizzonte, ma anche quanto quel poco fosse tuttavia importante. S’intitolava non più alla vita e alla biografia-biologia, ma al “campare”: Quanto spera di campare, Giovanni. Un uso ironico e ribaltato in positivo di quel verbo che spesso viene usato per intendere una certa approssimazione nei rapporti con i fatti, le cose, le persone, il senso civico, gli altri: non tirare a campare, come si di dice consegnandosi allo sciupio delle ore; ma sopravvivere resistendo al moto avverso dei tempi, lottando senza sentirsene vittima. Con le parole, gli strumenti dei poeti; e guardando il mondo in piena umanità.