Checchino Antonini è un giornalista di strada. In tutti i sensi. Ama perdersi soprattutto nei vicoli stretti delle storie dimenticate, per raccontarle a un’opinione pubblica distratta. Così ha fatto con il G8 di Genova, ricevendo anche una condanna a nove mesi di carcere per aver scritto nomi e cognomi dei responsabili di quelle giornate di terrore. Gli stessi anfratti scuri di cui ha narrato nei suoi reportage sulle bande di ragazzini sud americani che si fronteggiano a suon di coltelli, sempre a Genova. Strettoie della memoria in cui finiscono tante vite che, invece, dovrebbero essere raccontate.

Come quella di Federico Aldrovandi, un ragazzo di appena 18 anni ucciso da 4 agenti di polizia. Una storia brutta, fatta di silenzi, depistaggi, omissioni. Una storia che Checchino ha raccontato in un fumetto disegnato da Alessio Spataro, Zona del Silenzio (ed. Minimum fax). Per non dimenticare una delle tante morti ingiuste di cui è costellato il presente.

Checchino, cosa è successo il 25 settembre del 2005 quando Aldro, come lo chiamavano gli amici, è morto?

Aldro si imbatte in rapida successione in due volanti della polizia. È l’alba. Lui torna da un sabato notte passato a Bologna con i soliti amici. Un ragazzo tranquillo, che va bene a scuola, incensurato, non ha grilli per la testa. Non fa parte di nessuna sotto cultura giovanile né di reti politiche. Si imbatte in questo “misterioso” controllo di polizia che si rivelerà così violento da farlo morire nel giro di una ventina di minuti. Aldro era senza documenti ed era vestito con felpa e cappuccio, come “un tossico dei centri sociali”, come dichiareranno gli agenti. Tutto ciò succede intorno alle 6 del mattino. La famiglia lo cerca in ansia, finché verso le 11 si presenta a casa un Ispettore della Digos, amico di famiglia, che gli comunica la notizia.

Poi è calato un velo di silenzio per 3 lunghi mesi. Fino a che…

Il giorno di capodanno la mamma di Federico decide di aprire un blog. Decide di affidare il suo messaggio a una bottiglia che vaga nell’oceano telematico. Lì se ne accorge quel gruppo di giornalisti che in genere si occupa di repressione, che in quel periodo seguiva le violenze genovesi del g8. Tra questi ci sono anche io, che salgo a Ferrara, incontro la mamma e mi accorgo che è una storia terrificante. E comincio ad occuparmene.

Quando ti è nata l’idea di scrivere un libro, in particolar modo un graphic novel, sulla storia di Federico?

Di scrivere un Istant Book mi era venuto subito in mente, ma avevo scartato l’idea perché in realtà la storia è molto dolorosa. Il giornale poi gli stava dando una copertura più che buona. A stanarmi è stato Alessio Spataro, fumettista che già conoscevo. A quel punto abbiamo deciso di non fare nulla di didascalico, ma di forzare i limiti di 2 generi. Quello del graphic novel, da cui spesso resta fuori tanta realtà; e quello dell’inchiesta giornalistica, da cui resta sempre fuori tanta vita.

Quali sono state le difficoltà che avete incontrato disegnando/scrivendo le varie versioni di quella stessa notte?

La versione dei poliziotti è talmente paradossale che Alessio ha scelto alla fine di disegnarla come un brutto manga. I poliziotti, che si sono rifiutati di parlare per 3 anni, diranno infatti che il ragazzo si è fatto male da solo saltando sulla macchina e che addirittura gli ha rotto i due manganelli. Quando descrive la scena del pestaggio raccontata dalla testimone chiave - una giovane camerunense che ha rischiato per questo l’espulsione - lui sceglie il punto di vista degli occhi di Federico. Disegna quadri sempre più piccoli che indicano l’oppressione e il disagio.

La parte fiction che senso ha nella storia?

Abbiamo voluto inserire due personaggi che sembrano me e Alessio, ma non lo sono. Due persone che potrebbero essere padre e figlio, perché questa è una storia di genitori e figli. Tutti noi, ascoltandola, abbiamo pensato: potevo essere io, poteva essere mio figlio. E tanti padri, madri e figli hanno partecipato ai comitati di verità e giustizia, proprio perché è una storia che potrebbe riguardare chiunque.