“Se la nostra Costituzione pone al suo centro il lavoro, fino a indicarlo come il fondamento dell’ordinamento della Repubblica, si deve ai cento anni di storia che hanno preceduto la scelta dei padri costituenti. (...) Chiniamoci con rispetto davanti ad Essa e ascoltiamone l’insegnamento che parte da quel primo, straordinario, articolo, additando il valore più alto della Repubblica”. Così il segretario generale della Cgil, Guglielmo Epifani, scrive nell’introduzione al primo dei dodici fascicoli dedicati alla formazione dei delegati e dei sindacalisti della Cgil pubblicati o in corso di pubblicazione assieme a Rassegna Sindacale. A Valerio Strinati, autore del primo volume “La Costituzione e il lavoro”, affidiamo un commento dopo le recenti affermazioni del ministro Brunetta, secondo cui l’articolo 1 della Carta ha fatto il suo tempo.



Non si può disconoscere al ministro Brunetta la virtù della franchezza: una franchezza che, come si è visto, giunge fino all’invettiva se il discorso cade sulla ricorrente denuncia di immaginari complotti, orditi dalle opposizioni in combutta con non meglio identificati “poteri forti” per capovolgere il verdetto del corpo elettorale. Se però si passa ad altro e, come ha fatto recentemente il ministro della Funzione pubblica, si mette in discussione il fondamento dell’ordinamento democratico della Repubblica sul lavoro, stabilito dall’art. 1 della Costituzione, il discorso cambia, diventa più serio e pone interrogativi che travalicano le diatribe dietrologiche. Non si parla più solo dello sfogo di uno spirito esuberante, ma del complesso rapporto tra le forze politiche di governo e la Carta del 1948: un rapporto segnato da forti insofferenze e da una distanza che appare sovente irriducibile, come emerge nei periodici annunci di riforme che, al di là di talune fumosità, indicano chiaramente l’intenzione di alterare l’equilibrio del rapporto tra circuito della decisione politica e circuito delle garanzie (si veda, da ultimo, l’attacco al Capo dello Stato e alla Corte costituzionale) e tra centro e periferia, per affermare un primato del principio maggioritario e della figura del premier del tutto privo di contrappesi, estraneo allo spirito e alla lettera della Costituzione, così come lo è un’idea di federalismo che tende a sanzionare gli squilibri territoriali e sociali che affliggono storicamente il nostro paese.

Non si tratta più soltanto
di rivedere le modalità di funzionamento della struttura statale, e quindi la seconda parte della Costituzione, ma sono rimesse in discussione natura e finalità del patto sociale che le istituzioni sono chiamate a garantire e ad attuare. La proposta di “riscrivere” l’articolo 1 mira appunto alla rimozione di un caposaldo del nostro ordinamento. Se si parla – come fa il ministro Brunetta – di anacronismo dell’art. 1, si vuole infatti dire che va considerato superato il modello di società ad esso sotteso: ed è proprio su questo punto che i vizi di astrattezza e di apriorismo attribuiti di solito ai sostenitori dell’attualità della norma costituzionale iniziano a ritorcersi sul ragionamento “revisionista”.

Il lavoro posto a fondamento della Repubblica democratica non è infatti una vuota petizione di principio, ma indica sia un parametro di valutazione sociale del singolo individuo (altro che indifferenza alla meritocrazia!) sia un principio direttivo per l’azione dei pubblici poteri, consistente, in estrema sintesi, nella tutela e nella promozione della libertà, della dignità e della sicurezza delle persone (valori che integrano, tra l’altro, i limiti posti dall’art. 41 all’esercizio dell’iniziativa economica privata, che la Costituzione mira non a disconoscere, ma a regolare) e nella creazione di condizioni effettive di eguaglianza sociale, a garanzia dello sviluppo della persona e della piena partecipazione delle lavoratrici e dei lavoratori alla vita pubblica, nei suoi aspetti economici, politici e sociali. Che una simile prospettiva rimanga in larga misura estranea al centro-destra, peraltro, non sorprende affatto.

Le politiche del lavoro elaborate
dall’attuale coalizione di governo si fondano infatti sulla convinzione che, per aumentare l’occupazione, tutele e garanzie debbano essere subordinate alla creazione di condizioni di offerta della prestazione lavorativa quanto più possibile convenienti per il datore di lavoro. Tralasciando qualsiasi considerazione su flessibilità e precarietà, valga a titolo di esempio la riscrittura della normativa sulla sicurezza del lavoro, dominata dall’idea della prevenzione come costo da contenere e come vincolo da limitare in nome della libertà dell’iniziativa privata. In coerenza con un simile approccio, l’iniziativa collettiva e autonoma dei soggetti sociali a tutela dei propri interessi diventa accettabile solo in quanto è disponibile a subordinarsi a un sistema di compatibilità dettato sostanzialmente dalla controparte datoriale e dall’esecutivo.

Sindacato e contrattazione collettiva sono considerati, in questa prospettiva, istituzioni da emarginare, ove non si adattino a un percorso che, come traspare nelle più recenti iniziative legislative dell’esecutivo, coltiva l’ipotesi di un vero e proprio capovolgimento del sistema delle fonti di regolazione del rapporto di lavoro, con il drastico ridimensionamento del ruolo della contrattazione collettiva e la tendenziale sanzione del primato del contratto individuale. Per non dire poi della malcelata nostalgia con cui settori della maggioranza guardano alle gabbie salariali. È in effetti questo il paradosso del revisionismo modernizzatore: dichiarato inattuale il fondamento dell’ordinamento repubblicano sul lavoro, si evocano come emblemi dell’innovazione situazioni che si rifanno al passato remoto del nostro assetto sociale: i primi del ’900 quando, per la debolezza dell’organizzazione sindacale, la contrattazione collettiva, che pure difficilmente varcava i cancelli di una singola azienda, era l’eccezione rispetto al contratto individuale, e gli anni della ricostruzione, quando nel paese si affermarono forti differenze retributive territoriali sull’onda del persistere di gravi e irrisolti squilibri strutturali.

Con tali premesse, non deve stupire che la dura lezione della crisi economica internazionale sia rimasta sostanzialmente inascoltata e che, a parte sporadici e contraddittori segnali, nell’agenda del governo non compaia nulla che lasci intravedere la messa in atto di politiche pubbliche realmente modernizzatrici, volte a restituire spazio all’autonomia collettiva e a fondare il rilancio dell’economia sull’espansione della domanda, sulla formazione, sul sostegno a un’occupazione stabile e di qualità e sulla difesa di salari e pensioni, come richiesto dal sindacato. Oggi più che mai, invece, il filo conduttore di una politica del lavoro realmente democratica ed effettivamente innovativa può e deve essere rintracciato nella Costituzione e nei suoi principi.