Sembra trascorso un secolo dalle esternazioni di Giulio Tremonti sull’importanza del “posto fisso”. Le politiche del governo continuano a privilegiare la precarietà, a partire dai settori pubblici. Un merito, però, va sicuramente riconosciuto all’inquieto ministro dell’Economia: aver contribuito a stimolare una riflessione sulle conseguenze della massiccia dose di flessibilità (precarietà) introdotta, nel nostro paese, nel corso degli ultimi anni. Infatti sono tornati di grande attualità temi quali gli ammortizzatori sociali, il salario minimo, le partite Iva e, in particolare, il cosiddetto “contratto unico”.

Il tema è stato oggetto di commenti, ai quali rinviamo, sulle pagine di questa rivista. Personalmente, ho cercato di dimostrare che il nuovo contratto di lavoro a tempo indeterminato comporterebbe, in realtà, un notevole arretramento, in termini di diritti e tutele; e innanzitutto una sostanziale “moratoria” sull’art. 18 dello Statuto dei lavoratori. Sul campo vi è la proposta di Tito Boeri che ha già alimentato un ampio e controverso confronto; e vi è il più preoccupante, a mio parere, disegno di legge presentato al Senato da Pietro Ichino. In questa sede, tralasciando qualsiasi tipo di considerazione di carattere politico - e nel rispetto della necessaria sintesi - mi limiterò a evidenziare quali sono gli elementi di merito che, a mio giudizio, rendono la proposta Ichino (ddl nr. 1481/09 - “Per la transizione a un regime di flexsecurity”), addirittura peggiore della soluzione (tenacemente) suggerita da Boeri.

Il primo dato (comune) è rappresentato dall’assunto secondo il quale il dualismo esistente tra gli insider e gli outsider si risolve - a favore dei secondi - attraverso il ridimensionamento delle presunte posizioni di rendita godute da alcune fasce di lavoratori. In verità, già questo primo elemento presenta, per le motivazioni addotte a sostegno, un carattere strumentale e fazioso. Infatti, se, come motiva Ichino, la “rendita di posizione” di cui godrebbero alcune categorie di lavoratori - naturalmente, è scontato che il riferimento è all’art. 18 della legge 300/70 - fosse realmente responsabile della cattiva allocazione dei lavoratori, il problema, a ben vedere, non si porrebbe affatto. E’ noto a tutti, infatti, che i datori di lavoro, in caso di necessità, godono di ampia facoltà di licenziamento. I dati relativi al calo dell’occupazione realizzatasi nel corso degli ultimi mesi - ben oltre quanto previsto, rispetto alla frenata della produzione - lo confermano in modo inequivocabile e, direi, drammatico.

Probabilmente, il motivo reale (inconfessabile) della critica delle cosiddette posizioni di rendita è da ricercare, invece, nella mai sopita speranza di ridurre i lavoratori a veri e propri “ostaggi” (appunto, flessibili) privi di qualsivoglia difesa contro licenziamenti (anche) arbitrari e senza giusta causa. La seconda motivazione appare più “raffinata”, ma non per questo meno funzionale al disegno teso a superare la tutela offerta dall’ art. 18. Infatti, è sin troppo semplice - direi, scontato - rilevare che i giovani in procinto di entrare nel mercato del lavoro preferirebbero il modello di flexsecurity proposto da Ichino, piuttosto che restare “prigionieri” di una miriade di tipologie contrattuali “atipiche”, che ne comprometterebbero il futuro lavorativo e la stabilità sociale. E’ evidente, invece, che gli stessi giovani - se richiestogli, dalla stessa indagine - gradirebbero patire meno precarietà e beneficiare di migliori tutele; proprio quelle che Ichino considera posizioni di rendita da smantellare.

Un altro elemento che accomuna il “contratto di transizione” di Ichino al contratto unico di Boeri, è la durata del periodo di prova, esteso (per tutti) a sei mesi. Inoltre entrambi prevedono la parificazione della contribuzione previdenziale dei lavoratori subordinati e dei collaboratori autonomi continuativi, o “a progetto”, ma differiscono sulla durata del cosiddetto “inserimento”. A fronte dei tre anni previsti da Boeri - propedeutici alla “stabilizzazione” - il Ddl indica una misura da “Guinness World Records”: la fase di inserimento prevista da Ichino si estende, infatti, ai primi venti anni!

La proposta prevede che all’atto dell’eventuale cessazione del rapporto di lavoro - in conseguenza di un licenziamento per motivi economici o organizzativi, anche qui, senza possibilità di far valere l’obbligo della “giusta causa” - al lavoratore spetti un’indennità pari a tanti dodicesimi della retribuzione lorda goduta nell’ultimo anno di lavoro, quanti sono gli anni di anzianità di servizio in azienda. Il datore di lavoro è obbligato al rispetto di un preavviso non inferiore a un periodo pari a tanti mesi quanti sono gli anni di anzianità di servizio del lavoratore, con un massimo di dodici mesi. All’atto del preavviso, al lavoratore è concessa la facoltà di cessare immediatamente il rapporto, con conseguente godimento della suddetta indennità economica, oppure, in alternativa, continuare la prestazione lavorativa fino al compimento del periodo di preavviso. Anche qui, quella che dall’autore viene configurata come un’opzione a favore del lavoratore, si rivela, in realtà, una soluzione addirittura peggiorativa rispetto alla proposta Boeri.

Giusto per averne un’idea, un lavoratore con tre anni di anzianità di servizio, licenziato in regime di “contratto unico”, avrebbe titolo - all’atto della risoluzione contrattuale - a un’indennità economica pari a sei mensilità di retribuzione. Lo stesso lavoratore, in applicazione della tipologia contrattuale prevista dalla proposta Ichino, potrebbe optare per la cessazione immediata del rapporto di lavoro - con godimento di un’indennità pari a tre mensilità - oppure per la prosecuzione della prestazione lavorativa per ulteriori tre mesi. All’atto della risoluzione formale del rapporto, nulla più gli sarebbe dovuto.

Tra l’altro, di là dalle migliori intenzioni, appare evidente che l’ipotesi di un periodo di preavviso “lavorato” così lungo - che, credo, finirebbe per rappresentare l’opzione di maggioranza - per un licenziamento comunque “revocabile”, in qualsiasi momento, in modo unilaterale dal datore di lavoro, rappresenterebbe una sorta di “spada di Damocle” periodicamente sospesa sul capo dei lavoratori interessati. Si tratterebbe, inoltre, di un forte elemento di pressione e condizionamento delle scelte dei lavoratori; soprattutto rispetto alla libertà d’iscrizione a un’organizzazione sindacale.

Contemporaneamente, il suddetto disegno di legge prevede (anche) il “contratto di ricollocazione al lavoro” che, per dirla con l’autore, introdurrebbe un’assicurazione contro la disoccupazione di livello scandinavo. In sostanza, al lavoratore licenziato sarebbe corrisposto - attraverso un’Agenzia “paritetica”, finanziata dalle imprese sottoscrittrici dei contratti di transizione e da eventuali contributi regionali e del Fondo sociale europeo - un “trattamento complementare”, a scalare nel tempo, dal 90 al 60 per cento dell’ultima retribuzione, con un limite massimo di quattro anni.

Su questo punto, di là dalla naturale condivisione di un’ipotesi che concorra a stimolare l’opportuna riforma delle cosiddette “politiche passive del lavoro” in linea con gli standard europei, permane la naturale ritrosia alla costituzione dell’ennesimo Ente bilaterale “di scopo” che, a mio parere, contribuirebbe a determinare un’ulteriore “perdita d’identità” del sindacato confederale italiano; almeno così come lo abbiamo conosciuto fino a qualche anno fa.

In ogni caso, per concludere, credo che sarebbe una vera iattura se, considerate le premesse, la posizione ufficiale del maggior partito di opposizione - rispetto alle tematiche del lavoro - dovesse rivelarsi ufficialmente convergente con la riforma proposta da Ichino.

Testo già pubblicato, in data 29/11/09, sulla Rivista di critica sociale: Eguaglianza & Libertà.