«Io in ufficio il lunedì e il giovedì, mio marito il martedì e il venerdì»

Storia di Roberta e Pietro, ex pendolari in lavoro agile da quasi due anni. Una vita diversa, sempre in bilico tra famiglia e pc, tra isolamento e orari sballati. È un tema che riguarda milioni di persone, e che apre scenari diversi per diritti, mobilità e politiche abitative
Il regionale delle 7 e 45 per una volta è in orario. La banchina è zeppa, facce assonnate e imbavagliate dalle mascherine, corpi infagottati contro il freddo, occhi chini sui cellulari. Il cielo è basso e grigio, gonfio di pioggia. Le porte si aprono con un fischio lungo, e i primi viaggiatori sciamano fuori senza guardarsi troppo attorno. Poi chi deve partire monta su. Passi veloci, meccanici. S'accomodano in silenzio sul primo sedile disponibile, e la stazione di Frosinone scorre svelta oltre i finestrini luridi. Le prime nevi hanno già imbiancato le cime dei Lepini, il treno scompare dietro la prima curva.
Storia di Roberta e Pietro
“Trovare un posto là sopra era un terno al lotto”, commenta Pietro Fargnoli. Lui non è salito. È rimasto in piedi sulla banchina, in silenzio. Osserva gli altri che partono. Viaggia di rado oramai. Fino a due anni fa, invece, si definiva “cintura nera di pendolarismo”. Era addirittura presidente dell'associazione dei pendolari locale. “Oggi sono cintura nera di smart working”, ridacchia. Quarantaquattro anni, ingegnere all'Enel di Roma, una moglie due figli e un cane. Stanno tutti a Frosinone, adesso. Negli ultimi 10 anni ha fatto la spola sulla linea Cassino-Roma tutti i giorni. La mattina partiva tra le 6 e 45 e le 7 e 45, tornava tra le 7 e le 8 di sera, “tranne in casi particolari”. Dodici o tredici ore filate, sempre di fretta, sempre con l'orologio a portata di sguardo. Poi è arrivato il 7 marzo 2020. Due settimane prima era stato scoperto il “paziente 1” a Codogno. Il 23 febbraio era scattata la zona rossa in dieci Comuni del lodigiano. Due giorni dopo il presidente del Consiglio Giuseppe Conte avrebbe presentato e firmato il decreto che trascinava l’Italia intera nel primo lockdown. “Negli ultimi tre o quattro anni la mia azienda aveva già iniziato a introdurre una prima forma di smart working. Si lavorava da casa un giorno a settimana. Poi dal 7 marzo abbiamo iniziato a farlo tutti i giorni. E la mia vita è cambiata”.
Il casello dell'autostrada non è molto lontano dalla stazione. Verso la zona industriale, lungo la statale che porta a Latina, e verso il mare di Terracina. Su un lato della strada c'è un gommista, affianco un albergo, nello spiazzo un furgone rosso che vende panini ai camionisti in sosta. Le auto continuano a passare sotto la pensilina. Le sbarre bianche e rosse salgono e scendono a ritmo alternato. Roberta Diamanti conosce molto bene questo panorama, il profilo delle montagne che cambiano colore a seconda della stagione. Ce l'aveva oltre il parabrezza della sua auto ogni singolo giorno. Al suo fianco c'era sempre suo marito. Entrambi sono dipendenti della Saipem, un'azienda del gruppo Eni. Anche lei è una ingegnere, chimica per la precisione, e anche loro sono pendolari. Vivono a Frosinone, lavorano a Roma. “Abbiamo scelto di muoverci in macchina, però. Quando è nata la prima figlia il fatto di essere slegati dall'orario dei treni ci faceva stare un po' più tranquilli. Perché se fosse successo qualcosa, saremmo potuti arrivare a casa più velocemente. Poi è nata la seconda bambina, e questa situazione s'è cristallizzata. Stavamo fuori dalle 7 di mattina alle 7 di sera, tutti i giorni. In sostanza, ci vedevamo tutti insieme solo nei week end, e in vacanza”.
Pure per Roberta e per suo marito la vita è cambiata di colpo nel marzo 2020. “Prima in azienda non avevamo mai sperimentato lo smart working. Quindi è stata una decisione forzata dalla pandemia. Ci siamo ritrovati a lavorare a casa, e ci siamo adattati in qualche modo. All'inizio, quando c'erano anche le bambine, è stato complicatissimo. Adesso, tutto sommato, ci siamo stabilizzati. Andiamo due volte a settimana a Roma, e per il resto lavoriamo da remoto. Io vado il lunedì e giovedì, mio marito il martedì e il venerdì. Così a turno possiamo stare vicini alle bambine”.
«Io in ufficio il lunedì e il giovedì, mio marito il martedì e il venerdì»
CONCILIAZIONE, O NO?
È la tanto agognata conciliazione dei tempi di vita e lavoro. La ricaduta forse più evidente dell'esplosione dello smart working in tempo di pandemia. “Ho scoperto tante cose della vita familiare che prima non immaginavo – racconta Pietro Fargnoli, mentre osserva l'ennesimo regionale fischiare sui binari -. Come la routine dei compiti, il modo in cui i miei figli vivono la scuola e le attività pomeridiane. Mi capita di andare a riprenderli o ad accompagnarli, una cosa che prima era impossibile per me e che loro non riuscivano nemmeno a immaginare. Perché non c'ero. E poi finalmente i miei figli iniziano a capire più o meno che lavoro faccio”. Non è tutto solo rose e fiori, però: “Durante il mio periodo di pendolarismo, quando ero a Roma lavoravo, quando ero a Frosinone stavo in famiglia. C'era uno stacco netto, anche fisico, tra queste due dimensioni. Adesso tutto è diventato promiscuo. E' una delle cose che mi piace meno: stare a casa ma in realtà non esserci. I bambini sanno che in quei momenti non mi possono disturbare. Quindi la quantità del tempo insieme aumenta, ma la qualità non necessariamente migliora. Il saldo non è zero, insomma. Anche se ci sono alcuni aspetti divertenti: ad esempio, ai miei figli piace entrare nelle riunioni online e farsi vedere e sentire, vogliono conoscere la faccia di colleghi che sentono nominare tutti i giorni”.
«Per le donne è peggio, come sempre»
“Per le donne però è peggio, come sempre – dice Roberta Diamanti -. Io, ad esempio, adesso avverto di più la responsabilità di essere presente nella vita delle mie bambine. Prima mi sentivo in qualche modo giustificata nel delegare alle nonne e alla baby-sitter. Adesso invece, il loro aiuto serve lo stesso, ma quando è possibile mi faccio in quattro per correre comunque dietro alle esigenze delle mie figlie. Quindi spesso mi muovo con le cuffie, il pc e il telefono, e continuo a lavorare. Prima era complicato, ma adesso paradossalmente il lavoro è più pesante. Anche senza il viaggio. Perché le bambine ti cercano e pretendono che tu le segua nelle loro attività. Diventa difficile creare un ambiente isolato all'interno della casa dove potersi concentrare esclusivamente sul lavoro. Le ore più produttive sono quelle della mattina, quando loro sono a scuola. Quindi io mi sono organizzata i carichi di lavoro di conseguenza. Magari qualcosa me la lascio per la sera, quando loro dormono. In ufficio è più rilassante, perché sono focalizzata esclusivamente su quello che faccio, e ho anche dei momenti di pausa. A casa le pause non esistono”.
UNA NUOVA NORMALITÀ
Trovare un equilibrio, insomma, non appare così semplice. Ed è un problema che riguarda milioni di persone in Italia. Secondo i risultati della ricerca dell'Osservatorio smart working della School of management del Politecnico di Milano, presentata il 3 novembre scorso, sebbene il numero degli smart worker nel corso del 2021 sia diminuito, passando da 5,37 milioni nel primo trimestre dell’anno a 4,07 milioni nel terzo trimestre, a settembre restavano comunque 1,77 milioni di lavoratori agili nelle grandi imprese, 630 mila nelle piccole e medie, 810 mila nelle microimprese, e 860 mila nella Pubblica amministrazione. Progetti di smart working strutturati o informali, sono attualmente presenti nell’81 per cento delle grandi imprese (contro il 65 per cento del 2019), nel 53 per cento delle pmi (erano il 30 per cento) e nel 67 per cento delle Pa (contro il 23 per cento pre-Covid). Il report conferma poi che il rapporto fra lavoro e vita privata è migliorato per la maggior parte dei lavoratori delle grandi imprese (89 per cento), pmi (55 per cento) e Pa (82 per cento). Ma la combinazione di lavoro forzato da remoto e pandemia ha avuto anche alcune conseguenze negative: è calata dal 12 per cento al 7 per cento la percentuale di lavoratori da remoto pienamente 'ingaggiati', il 28 per cento ha sofferto di tecnostress, il 17 per cento di troppo lavoro.
“È in atto una trasformazione. La pandemia ha accelerato l’evoluzione di modelli verso forme di organizzazione del lavoro più flessibili e intelligenti, e ha cambiato le aspettative di imprese e lavoratori", ci racconta Mariano Corso, responsabile scientifico dell’Osservatorio del Politecnico. "Le grandi imprese stanno sperimentando stili di lavoro diversi, con la ricerca di nuovi equilibri fra presenza e distanza, capaci di cogliere i benefici potenziali di entrambe le modalità”. Bisogna, in sostanza, passare dalla fase emergenziale a una nuova normalità. Esistono però ancora delle resistenze, “che però sono spesso frutto di incapacità a lavorare per obiettivi, di una certa cultura del sospetto e di un pregiudizio di fondo”. Al termine dell'emergenza, in ogni caso, il Politecnico prevede un aumento degli smart worker rispetto ai numeri registrati a settembre: saranno 4,38 milioni i lavoratori che opereranno almeno in parte da remoto (+8 per cento), di cui 2,03 milioni nelle grandi imprese, 700mila delle pmi, 970mila nelle microimprese e 680mila nel pubblico impiego.
“Ora è necessario costruire il futuro del lavoro sul vero smart working, che è uno strumento di modernizzazione che spinge a un ripensamento di processi all’insegna della flessibilità e della meritocrazia, proponendo ai lavoratori una maggiore autonomia e responsabilizzazione sui risultati”. Per il docente, la discussione in corso tra le parti sociali va nella direzione giusta: “Il sindacato all'inizio ha fatto un po' di fatica, a dire il vero, ma oggi ci sono rappresentanti dei lavoratori ben più preparati di quanto non siano le aziende. L'obiettivo comune resta quello di condividere una serie di regole che attengano soprattutto all'orario. La prestazione deve evidentemente rimanere quella concordata dai contratti, ma dentro una fascia molto ampia di operatività. All'interno di questa finestra, si possono regolare fasce di contattabilità più limitate. Orari determinati nei quali il lavoratore può essere contattato. In questo modo è anche difficile che le aziende possano approfittarne”.
4,38 milioni di lavoratori opereranno almeno in parte da remoto (+8%)
La parola chiave, insomma, resta 'equilibrio'. Che se non viene trovato, però, rischia di determinare un peggioramento tanto della qualità del lavoro quanto di quella della vita. “In un lavoro di squadra come il mio, perdere il contatto umano con le persone alla lunga diventa pesante – spiega ancora Fargnoli -. I rapporti diventano molto freddi e distaccati, e questo appesantisce tutto. Sicuramente il modo di trovare un bilanciamento c'è. La mia azienda su questo si sta spendendo molto”. Nel frattempo, però, Enel da metà settembre consente di tornare a lavorare in presenza, su base volontaria. Per farlo occorre prenotare una postazione attraverso un tool informatico.
“Sullo smart working sta puntando molto, però. Tutte le attività remotizzabili resteranno tali, almeno in parte. Ma non c'è ancora una regolamentazione ufficiale. Al momento ci sono solo suggerimenti e buone pratiche. Ad esempio viene fortemente sconsigliato di organizzare riunioni tra le 12:30 e le 14:30, oppure di inviare mail dopo le 18. Eppure molti colleghi, anche se non gli viene espressamente richiesto, quando arriva un messaggio rispondono subito, pure se è molto tardi. Mi rendo conto che non va bene, ma penso sia un meccanismo che s'instaura per un approccio personale al lavoro o alla vita. Una sorta di senso di responsabilità alimentato dalla distanza fisica. Questo è un esempio di regolamentazione che andrebbe fatta”.
Il gruppo Eni, invece, ha già firmato con i sindacati un’ipotesi di accordo sul lavoro agile che entrerà in vigore alla fine della dell'emergenza. “Sarebbe perfetto stare un paio di giorni a settimana a casa e altri tre giorni in ufficio - ipotizza Roberta Diamanti -, perché riporterebbe a una routine familiare quasi normale. Le bambine si abituerebbero a interagire anche con gli altri e non esclusivamente coi genitori. Ma ci darebbe anche un po' di respiro, togliendo la pesantezza del viaggio”.
RITORNO AL FUTURO
Tornare indietro, in ogni caso, non sembra più possibile. “I dati ci dicono che, se regolato, è un vantaggio per tutti - spiega ancora il professor Corso -. La tecnologia ce lo permette da tempo, ma la pandemia ha creato una consapevolezza che forse avrebbe avuto bisogno di decenni per generarsi. In pochi mesi, invece, ci siamo resi conto che determinati lavori e molte attività, in realtà, funzionano benissimo anche se fatte a distanza. Anzi, a volte anche meglio. Abbiamo spostato l'asticella delle nostre percezioni, insomma. Ora servono nuove norme e, in alcuni casi, una nuova forma mentis”. Le ricadute dello smart working, tra altro, non riguardano esclusivamente la sfera lavorativa in senso stretto. Ma incidono fortemente anche sulla mobilità. Pietro e Roberta sono solo due dei milioni di pendolari italiani che hanno smesso di viaggiare tutti i giorni sulle strade e lungo le linee ferroviarie italiane. Secondo il censimento permanente della popolazione, prima dello stato di emergenza, erano oltre 30 milioni. Oltre il 50 per cento della popolazione residente in Italia effettuava quindi spostamenti quotidiani per recarsi al luogo di studio o di lavoro. Molti di loro per due anni si sono fermati, e la ripresa ha portato delle grosse novità.
“La pandemia e lo smart working hanno determinato una trasformazione dei modelli di mobilità - conferma Andrea Poggio, responsabile mobilità sostenibile di Legambiente -, con delle differenze in aumento tra le città più grandi e i territori dei centri minori. Se durante le chiusure i pochi spostamenti di quartiere nelle grandi città sono avvenuti soprattutto a piedi o in bici, in Italia si è usata prevalentemente l’auto. Alla riapertura nelle città si compiono oggi più del doppio degli spostamenti quotidiani”.
A confermarlo ci sono i dati dell'ultimo rapporto di Legambiente sul tema, secondo il quale stiamo ricominciando ad uscire e a spostarci, anche se meno del 2019. Soprattutto nelle grandi città del nord, se prima 3 lavoratori su 4 si recavano quasi tutti i giorni sul posto di lavoro, oggi resta a casa il 69 per cento e domani probabilmente il dato crescerà. A Roma, Napoli, Milano e Torino il cambiamento è più evidente: tornerà spesso in ufficio solo la metà dei lavoratori (48 per cento a Milano, il 53 per cento a Torino). Il paradosso, però, è che proprio nelle grandi città ci si sposta più spesso. Anche 3 o 4 volte al giorno. E si continua a usare per lo più l’auto, anche se ci si muove molto anche a piedi. L’uso di autobus, tram, metropolitane e treni regionali è invece sceso al 70-80 per cento rispetto al 2019, penalizzato dalla paura dell’affollamento.
L’uso di autobus, tram, metropolitane e treni regionali è sceso al 70-80% rispetto al 2019
“Ci sono due grandi ambiti di cambiamento - spiega Andrea Poggio -, uno è la mobilità, l'altro è come si sono trasformati il lavoro e la vita delle persone. Sono due sottoinsiemi correlati, che determineranno le politiche di welfare e del trasporto pubblico del futuro”. L'emergenza ha determinato dei flussi di mobilità diversi, più articolati: “Per chi vive in una grande città non cambia molto, ma per chi abita in periferia o lontano dai centri e ha cambiato i propri orari in base al lavoro da remoto, la vita è cambiata del tutto. Quindi il trasporto di massa classico non aiuta a risolvere il problema, ma deve essere integrato con altro”. “Il diffondersi dello smart working - continua – oltre alla mobilità chiama in causa anche le amministrazioni pubbliche per pensare a nuove politiche abitative e territoriali. Ormai stazioni, bar, oratori e altri luoghi, se integrati con servizi aggiuntivi, possono diventare luoghi di lavoro decentrati. Dobbiamo quindi favorire una trasformazione e una riconversione degli spazi, e adattare anche gli strumenti urbanistici alle nuove esigenze. Lo sviluppo immobiliare post-covid non dev'essere necessariamente legato alla stanza in più per chi se lo può permettere, ma può far nascere servizi di prossimità per lavoro e incontri diffusi sul territorio per tutti”.
Intervista a Tania Scacchetti (Cgil)
NON SI TORNA INDIETRO
Il lavoro post-pandemia vede in agenda una serie di voci: retribuzione, orari, sicurezza, rischio isolamento, inserimento dei giovani, formazione. Su questo, una legge, seppur piuttosto “leggera” c'è già: è la 81 del 2017, scritta prima della pandemia, ma che ha creato un testo di riferimento per affrontare l'emergenza e regolare il diritto alla disconnessione. Sono in corso i tavoli tra sindacati e governo per regolare il lavoro agile tanto nel pubblico quanto nel privato. Nei giorni scorsi sono state presentate dal ministro Brunetta le linee guida per la Pubblica amministrazione, e per il prossimo 7 dicembre, alle ore 14.30, c'è già una convocazione del ministro Orlando per quanto riguarda le aziende private. Il punto di arrivo per un larga fetta di lavoratori italiani sarà, con ogni probabilità, uno smart working non per emergenza ma per scelta, flessibile e ibrido. Questo cambierà anche il modo di viaggiare e di vivere. “Personalmente credo che un ritorno in ufficio tutti i giorni sarebbe un passo indietro - dice Pietro Fargnoli -. Non penso che sia possibile. La mia azienda, ad esempio, sta spingendo molto per rendere il lavoro da casa strutturale. E ci saranno anche grandi trasformazioni nel trasporto di massa, come quello ferroviario regionale. E questo inciderà sulle politiche abitative. Tanti colleghi tornano a vivere e a lavorare dal loro paesino di provincia, che è più economico e a misura d'uomo. E' un tema interessantissimo, ma lo vedo poco analizzato”.
“La mia azienda si è accorta che la produttività è aumentata e i costi sono diminuiti - dice poi Roberta Diamanti -, quindi renderà permanente lo smart working. Immagino che si deciderà un giorno in cui non andrà nessuno, ad esempio il venerdì, così gli uffici saranno completamente chiusi. A me alternare presenza e lavoro a distanza andrebbe più che bene. Forse mi mancherebbe solo un po' il viaggio con mio marito la mattina, un momento in cui si riusciva a parlare e a confrontarsi. Cosa che non è scontata durante il resto della giornata”.
È buio. Il regionale 12641 per Cassino si ferma nella stazione di Frosinone. Sono le 8 e 10 di sera. I pendolari scendono dai vagoni e riempiono la banchina del primo binario. Si disperdono sotto il neon dell'androne con passo svelto. Una manciata dei migranti appollaiati su una panchina li guarda passare senza troppo interesse. Decine di ombrelli si aprono a coprire facce stanche. Qualcuno s'avvia a piedi schivando le pozzanghere, altri saltano in auto e scompaiono in fretta lungo il viale male illuminato, solo un manciata si ferma sotto la pensilina ad aspettare il bus. Poco lontano, al casello dell'autostrada, le sbarre del passaggio al livello s'aprono perlopiù in una direzione, quella d'entrata. Sulla statale c'è ancora traffico. I fari posteriori delle auto incolonnate formano un serpentone rosso. Dai tubi di scarico, gli sbuffi bianchi nell'aria fredda sembrano dare corpo all'impazienza. Pietro e Roberta sono a casa, con i loro bambini. Magari giocano, o guardano un cartone animato. Il profumo della cena già si diffonde per le stanze. Ogni tanto buttano un occhio al telefono. Per il momento tace.
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