« Eravamo impreparati, non ne sapevamo niente»

Il dottor De Renzo, 71 anni, non riesce ad andare in pensione. Il dottor Casciaro, 31 anni, dal marzo 2020 è intrappolato in un reparto Covid. Il virus ha segnato nel profondo almeno tre generazioni di operatori sanitari e lasciato senza cure migliaia e migliaia di pazienti. L'emergenza ha portato alla luce tutti i nervi scoperti di un sistema fragile, che ora va ricostruito
Mimmo De Renzo ha quasi 71 anni, anche se ne dimostra molti di meno. Ogni giorno prende la sua borsa di pelle, scende in garage, accende la macchina. E parte. Da Palo del Colle, un bel paesone di 20 mila anime a un tiro di schioppo da Bitonto - è lì che vive -, ci vogliono sessanta chilometri abbondanti per arrivare all'ospedale di Putignano. Un'ora di viaggio, più o meno, tra terra piatta e cielo basso, con gli ulivi e le vigne che scorrono in fretta oltre i finestrini. Altri sessanta chilometri ci vogliono al ritorno, a fine turno. Magari di notte, o all'alba. In ogni caso, dopo almeno 12 ore in pronto soccorso.
Il dottor De Renzo, 71 anni
“Lo so che mi danno cinquant'anni, e mi fa pure piacere. Ma la carta d'identità non mente e lo specchio mi sputa in faccia la verità tutti i giorni - ridacchia col suo forte accento barese, infarcito di termini dialettali e massime paesane -. Un paio di volte me la sono pure vista brutta. C'era la nebbia, un colpo di sonno e sono uscito di strada. Ho visto la morte in faccia, altroché. D'altronde non sono più un ragazzino”. Il dottor De Rienzo è chirurgo al pronto soccorso del Santa Maria degli Angeli. Il 31 gennaio 2020 doveva andare in pensione, ma cinque giorni prima gli è arrivata una lettera dalla Asl. Il direttore gli scriveva che, a causa dell'emergenza Covid, la sua permanenza in servizio era congelata fino alla fine della pandemia. “Eccomi, sono ancora qua”.
Qualche mese dopo, il 17 novembre 2020, è stata completata la riconversione dell’ospedale di Putignano in Covid hospital. A regime il presidio poteva contare su 82 posti letto, tra cui 15 di terapia semintensiva e 8 dedicati alla terapia intensiva. Arrivare a novembre è stata dura, però, perché nel frattempo è esplosa la prima ondata. “Abbiamo vissuto un'esperienza drammatica, ci siamo trovati ad affrontare un nemico senza le armi per farlo. Eravamo impreparati, insomma. Ci avevano pure fatto un corso di formazione, ma è durato un giorno e in pratica ci hanno solo insegnato come vestirci. Ne sapevamo davvero troppo poco. E poi mi sono dovuto anche comprare una visiera per conto mio. Sì, dopo un po' ce l'hanno data, ma quella s'è rotta subito, chissà da dove veniva. Ci hanno consegnato anche delle tute, però come te le infilavi ti si strappavano addosso. Erano di carta. Così, stavo di notte tutto imbracato, pronto ad accogliere chi arrivava. E non potevo nemmeno andarmi a stendere per un minuto. Perché appena ti sdraiavi la tuta si strappava addosso. Sì, è stata proprio brutta. Sono sedici anni che faccio questo mestiere, ma gli ultimi due sono stati davvero pesanti. Più dei 14 precedenti messi tutti insieme”.
« Eravamo impreparati, non ne sapevamo niente»
Oltre ai dispositivi di protezione, però, al dottor De Renzo in quel periodo è mancato soprattutto qualche turno di riposo. “Un tale di nome Napoleone diceva che per vincere le guerre ci vogliono i soldati, non bastano le strategie. Lo dovremmo ricordare a chi ci comanda. Mi ricordo che un giorno avevo bisogno di un radiologo per fare un torace, perché quello era necessario in quel momento. Non mi servivano gli esami del sangue, una tac, o che altro, mi serviva proprio una semplice radiografia del torace, per vedere cosa stava succedendo nei polmoni. Ebbene, il radiologo non c'era. Avevamo un reperibile, ma ti pare? In una situazione del genere... Io mi definisco un operaio della medicina, e allora il referto l'ho interpretato io che però non ho certo una competenza specifica. Posso sbagliare, e ho anche sbagliato. Ma eravamo messi così. Ci mancavano le braccia. Come fai ad arare un campo senza i contadini, senza le zappe, senza i trattori?”.
Prima del Covid
Il dottor De Renzo non era pronto ad affrontare quello che sarebbe successo. Forse non lo era nessuno al mondo. Di sicuro non lo era la sanità italiana. Medici e infermieri l'hanno vissuto sulla propria pelle, e hanno pagato dazio. Ma a confermarlo c'erano già dei dati, quelli della Fondazione Gimbe, contenuti in un rapporto pubblicato mesi prima del caso zero di Codogno. “Nel decennio 2010/2019 - si legge nel report - il finanziamento pubblico del Servizio sanitario nazionale è aumentato di 8,8 miliardi di euro, crescendo in media dello 0,9 per cento all’anno, un tasso inferiore a quello dell’inflazione media annua pari a 1,07 per cento”. Quindi i fondi erano sì aumentati in termini assoluti, ma meno del costo della vita. In più, c'erano 37 miliardi di euro totali di finanziamenti promessi e non realizzati, o ridotti. In sostanza, se nel 2010, i 105,6 miliardi di euro immessi nella sanità rappresentavano il 7 per cento della ricchezza nazionale, nel 2019, 114,5 miliardi erano il 6,6 per cento. Un taglio dello 0,4 per cento in 10 anni che porta la firma dei governi Berlusconi IV, Monti, Letta, Renzi, Gentiloni, Conte. Tutto questo s'è automaticamente tradotto in un calo costante dei posti letto disponibili, e in una diminuzione ancora più significativa dei letti per i malati acuti. Ma soprattutto in un'emorragia costante di medici. L’Italia prima della pandemia aveva anche meno infermieri di quasi tutti i paesi dell’Europa occidentale. Secondo i calcoli della Ragioneria dello Stato, tra il 2009 e il 2017 la sanità pubblica nazionale ha perso oltre 8 mila medici e più di 13 mila infermieri.
Trend spesa sanitaria in Italia rispetto al Pil (fonte: Gimbe)
Il dottor Casciaro, 31 anni
Non è quindi un caso se, appena il Covid s'è affacciato alle porte scorrevoli dei pronto soccorso italiani, per “tappare i buchi” del sistema siano stati chiamati alle armi i medici specializzandi. Le “braccia” di cui avrebbe avuto tanto bisogno il dottor De Renzo a Putignano. Tra il marzo del 2020 e l'aprile di del 2021 il sistema sanitario ha reclutato in fretta e furia 83.180 persone. Tra queste ci sono 21.414 medici, che rappresentano un incremento del 21 per cento del numero dei professionisti già presenti negli ospedali all'inizio della pandemia. Moltissimi erano giovani o giovanissimi dottori in formazione, spediti in trincea per sopperire alle carenze di un sistema al collasso. Con il decreto Cura Italia dell'aprile 2020 per alcuni di loro s'è almeno aperta la possibilità di essere assunti per 12 mesi. E poi, sfruttando il cosiddetto Decreto Calabria dell'anno prima, il potenziale passaggio al tempo indeterminato una volta completata la formazione.
È proprio quello che è successo a Francesco Casciaro, 31 anni, calabrese di nascita, specializzando in medicina interna all'ospedale maggiore di Novara. “Quando c'è stata la prima ondata avevo appena iniziato il terzo anno. Stavo perlopiù in ambulatorio, in reparto facevamo solo le guardie notturne e i turni durante i weekend - ci racconta -. È successo tutto in un attimo, non riesco nemmeno a distinguere i ricordi e isolare il primo giorno. Il reparto di medicina interna è stato convertito in area Covid da un giorno all'altro, ed è cambiato tutto. I turni sono aumentati, non mi sono praticamente più occupato di nient'altro che non fosse Covid”. Ancora oggi il dottor Casciaro lavora in una sub-intensiva, un piccolo spazio con quattro posti letto che ospitano pazienti con ventilazione non invasiva. Ancora occhi impauriti sotto quei caschi trasparenti che sono diventati tristemente famosi in tutto il mondo.
Il dottor Casciaro, in un certo senso, è stato anche fortunato rispetto a molti suoi colleghi. Lavorando in un reparto di medicina interna, aveva già avuto a che fare con dei malati con problemi respiratori. “Avevo già curato polmoniti, l'acutizzazione di bronchiti o scompensi cardiaci con problemi respiratori. Erano cose che già conoscevo, insomma, non partivo proprio da zero. Ma sicuramente non ero pronto ad affrontare quello che è successo, di questa nuova malattia non sapevo davvero nulla”. Ha dovuto imparare in fretta, però. “La prima volta è stata una sensazione strana. Ero imbardato come un palombaro, con un paziente che stava molto male. Sembrava un film americano, e tutto scorreva veloce. Non so quando mi sono reso conto per davvero di quello che stava succedendo. In ogni caso, il lavoro è diventato massacrante da subito”.
« Sembrava un film americano»
La prima ondata Casciaro l'ha vissuta da specializzando vero e proprio. Aveva sempre qualcuno accanto e raramente s'è trovato a dover prendere delle decisioni da solo. La seconda e la terza, invece, le ha affrontate dopo aver cambiato posizione lavorativa grazie al decreto Cura Italia. Ora aveva una certa indipendenza, e una maggiore autonomia. Faceva scelte, insomma.
Una generazione in trincea
Nei primi tempi, però, regnava il caos. Le regole erano saltate. Bisognava agire, non c'era tempo di organizzarsi. Proprio su quei convulsi mesi si concentra un'indagine pubblicata nel dicembre 2020 da “Chi si cura di te?”, un'associazione che si occupa di rappresentare gli interessi dei medici in formazione. I risultati dimostrano come il Covid, anche in questo caso, abbia portato in superficie tutti i nervi scoperti di una condizione che da anni rappresenta una zona grigia, un limbo indefinito tra formazione e lavoro, in cui diritti e tutele sono costantemente a rischio. Dei 314 specializzandi che hanno partecipato al sondaggio, due terzi hanno dichiarato di aver lavorato in reparti Covid. Di questi, quasi la metà non appartiene a scuole di area infettivo/respiratoria, quasi il 90 per cento ha ricevuto una formazione inadeguata e pochi dispositivi di protezione. La maggior parte ha poi subito “una modifica del proprio piano formativo senza avere la possibilità di recuperare le attività perse”. Solo nel 5 per cento dei casi, infatti, il programma di lezioni è stato svolto regolarmente, mentre due volte su tre le lezioni “non sono state svolte o sono state svolte solo parzialmente”.
“Gli specializzandi in questo Paese non sono considerati lavoratori ma studenti, anche se in realtà svolgono attività clinica con autonomia crescente - commenta Alice Clemente, componente dell'esecutivo si 'Chi si cura di te' -. Sono stati poco tutelati di fronte ai cambiamenti di mansione dovuti al Covid. In realtà, è una situazione che denunciamo da anni. Ma in questo periodo è stato tutto più evidente. Per quanto riguarda la formazione, c'è stata una sospensione parziale delle attività, che si è ristretta in modo molto specifico su temi che avevano più aderenza al virus". Lo si è visto anche nel concorso successivo, "in cui la distribuzione dei contratti è aumentata ma molti sono stati spalmati solo su malattie infettive, anestesia, rianimazione e medicina preventiva". Sicuramente la pandemia farà aumentare gli specialisti in queste branche, forti di un'esperienza eccezionale, "ma la realtà è che già prima mancavano medici in molte altre aree. Settori che sono comunque indispensabili a rispondere ai fabbisogni di salute della popolazione”.
“Lo studio teorico è stato un po' messo da parte, è ovvio – conferma il dottor Casciaro -. Diciamo che se non ci fosse stato questo gran casino avrei avuto molto più tempo per studiare, e magari per concentrarmi su cose diverse. Invece ho studiato soprattutto quello che poi mi sarebbe servito in reparto. C'era un'esigenza, e ho fatto quello che dovevo. Sicuramente alcuni progetti che avevo in testa sono saltati. Non ho potuto approfondire certe cose che mi interessavano, così come è svanita l'idea di fare un periodo fuori sede o magari un'esperienza all'estero. Avevo scelto medicina interna proprio per la varietà della branca, ma non è stato possibile. Oggi, però, sulla gestione di un paziente respiratorio sono diventato molto competente”.
La sanità 'dopata'
Il rischio, a quanto pare, è che si stia formando una generazione di giovani medici ferratissima in alcuni campi, ma che potrebbe aver perso molto terreno su altri. D'altronde in questi due anni il Covid ha calamitato l'attenzione di tutti. E la sanità italiana s'è concentrata quasi esclusivamente sulla pandemia. Pure in questo caso sono i dati a confermarlo. Quelli, certificati dalla Corte dei Conti sul fenomeno delle cure mancate ai pazienti non Covid nel corso del 2020 e rielaborati dall'associazione Salutequità. Sono numeri che fanno tremare i polsi: nel 2020 negli ospedali italiani ci sono stati oltre un milione e trecentomila ricoveri in meno rispetto al 2019. A saltare sono stati più di 747 mila ricoveri programmati, e addirittura 554.123 ricoveri urgenti.
VideoschedaCure mancate ai non-Covid
La gente non si è curata, insomma, o si è curata poco. Soprattutto chi aveva bisogno di interventi in chirurgia generale, vascolare e otorinolaringoiatria. Una riduzione importante c'è stata, però, anche per quanto riguarda i tumori. I ricoveri di chirurgia oncologica, nonostante non dovessero subire interruzioni, hanno visto una diminuzione del 13 per cento. I ricoveri per radioterapia e chemioterapia rispettivamente del 15 per cento e del 10 per cento. Pure i trapianti d’organi sono stati l'8 per cento in meno, mentre i ricoveri pediatrici hanno registrato addirittura una diminuzione del 50 per cento. Tutto questo ha portato, rispetto al 2019, una perdita di 144,5 milioni di euro per mancate prestazioni, che dal punto di vista economico equivalgono a più di 2 miliardi.
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La pandemia, però, è costata alle finanze nazionali ben oltre questa cifra. Il governo è stato costretto a mettere mano al portafogli più volte per foraggiare un sistema che arrivava da decenni di tagli selvaggi. Secondo il più recente monitoraggio sulla spesa sanitaria pubblicato dal ministero dell'Economia e delle finanze, nel 2020 la sanità è stata finanziata con oltre 120.557 milioni di euro, il 5,3 per cento in più rispetto all'anno precedente, che valgono il 7,3 per cento del Pil. Un netto cambio di direzione, insomma, dopo i minimi aumenti registrati nel periodo 2021-2019, rialzi che erano stati letteralmente cannibalizzati dall'inflazione.
Spesa sanitaria corrente (variazioni percentuali)
Per la gestione dell’emergenza sono stati complessivamente assegnati quasi 9 miliardi: 5,138 miliardi nel 2020, coi decreti Cura Italia, Rilancio e Agosto, e 3,845 miliardi nel 2021, col decreto Sostegni, il decreto Sostegni bis, e il decreto Legge 105/2021. Quello dello scorso anno, quindi, è un dato evidentemente “dopato”. Ne sono consapevoli anche al ministero, tanto che ci tengono a precisare che “il consistente scostamento registrato nel 2020 è dovuto all’inclusione nella spesa sanitaria corrente di contabilità nazionale di oltre 2.400 milioni di euro relativi ai costi imputabili al commissario straordinario” e non alla spesa corrente. Le previsioni del ministero contenute nella manovra, tra l'altro, parlano di un nuovo aumento per quest'anno: 127.138 milioni, un balzo ulteriore del 3 per cento. Per il triennio 2022-2024 è invece previsto che la spesa sanitaria decresca a un tasso medio annuo dello 0,7 per cento. Tutto questo al netto degli investimenti del Recovery fund, che stanzia ben 20,2 miliardi per la sanità. Altri steroidi per la sanità italiana, quindi. Secondo i sindacati ancora non è abbastanza per risollevarne le sorti. E poi resta da vedere se e come questa cascata di denaro verrà adoperata.
“Le medaglie si danno ai morti”
Gli effetti della pandemia sul sistema sanitario italiano, dunque, si fanno sentire. E si faranno sentire ancora a lungo. Come avranno ancora effetti decisivi sulla vita professionale e privata dei medici. Il dottor De Renzo, ad esempio, resta in attesa di notizie “dall'alto”. “Cos'altro posso fare? Certo sono stanco, ma questo mestiere lo fai perché lo hai scelto, mica perché sei un eroe”. E ogni giorno lui continua a fare avanti indietro tra Colle del Palo e Putignano, rimuginando: “Questi due anni sono stati una mazzata tremenda per me, ma anche un'esperienza straordinaria, professionale e umana insieme. Vedevi la gente morire sotto le tue mani, e i colleghi finire intubati. Ti disperavi, imprecavi, bestemmiavi. E pregavi pure se necessario, anche se sei un miscredente. T'attaccavi a tutto, insomma, sperando che non succedesse a te, o alla tua famiglia. Per andare avanti, in quei momenti, devi avere la capacità e la volontà di trovare una lucina in fondo al buio. Una voce che ti dice: va bene, in fin dei conti non è tutto sbagliato. Altrimenti avrei fatto un altro lavoro, no? Però gli eroi sono altri. Le medaglie si danno ai morti, e io modestamente sono ancora vivo”.
«Questo mestiere lo fai perché lo hai scelto»
Quella parola, 'eroe', non piace nemmeno al dottor Casciaro. “È stata usata un po' troppo spesso e in maniera superficiale. Alla fine uno studia per aiutare la gente che sta male. Quindi se c'è un momento storico così, ci si rimbocca le maniche e si fa quello che si deve fare. Certo, io mi sono confrontato spesso con la morte in questi due anni. Troppo spesso e in troppo poco tempo, forse. In una manciata di mesi ho accumulato un'esperienza che normalmente si fa in anni e anni di carriera, e il pelo sullo stomaco m'è cresciuto in fretta. Soprattutto all'inizio, quando non si sapeva proprio dove mettere le mani. Ho una fortuna, però: tutto questo l'ho affrontato insieme ai miei colleghi e alle mie colleghe, persone che già conoscevo da tempo. E siamo cresciuti tutti insieme. Così questa esperienza è stata un po' più sopportabile”.
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