La povertà non è una colpa. O meglio non è colpa dei poveri se si trovano in quella condizione. È invece colpa della collettività, della società che non ha saputo essere inclusiva e consentire a tutti e tutte di uscire dalla propria condizione di fragilità. E i numeri sono davvero impietosi. Dice l’Istat: nel 2020 i poveri assoluti erano 5,6 milioni, passando, rispetto all’anno precedente, dal 7,7% della popolazione al 9,4%. A loro vanno aggiunti quanti sono in condizione di povertà relativa: per l’Istituto nazionale di statistica nel 2020 le famiglie in questa condizione erano 2,6 milioni.

Ma chi sono i poveri? Lo racconta bene l’ultimo rapporto della Caritas, appena pubblicato: del milione e 900 mila persone assistite lo scorso anno, il 44% sono “nuovi poveri”. Insomma, se ancora ci fosse bisogno di conferme, la pandemia ha accentuato le diseguaglianze. Ma cerchiamo di capire ancora meglio: “Oltre la metà delle persone che si sono rivolte alla Caritas (il 57,1%) aveva al massimo la licenza di scuola media inferiore, percentuale che tra gli italiani sale al 65,3% e che nel Mezzogiorno arriva addirittura al 77,6%. Siamo quindi di fronte a situazioni in cui appare evidente una forte vulnerabilità culturale e sociale, che impedisce sul nascere la possibilità di fare il salto necessario per superare l’ostacolo. Il 64,9% degli assistiti dichiara di avere figli; tra loro, quasi un terzo vive con figli minori”. Già, i bimbi e le bimbe: è ancora l’Istat ad affermare che, nell’Italia delle culle vuote, 1 milione 300 mila minori sono in condizione di povertà assoluta.

Questi milioni di donne e uomini hanno il diritto a essere rispettati. E hanno il diritto a essere aiutati ad uscire da questa condizione. Non meritano di venir definiti poltronisti – quando va bene – oppure furbetti e truffatori quando va male. Qualcuno ha truffato l’Inps e ha percepito il reddito di cittadinanza non avendone diritto? Sicuramente, ma sono una percentuale irrisoria rispetto alla platea dei percettori, e sono davvero pochi rispetto ai ben più numerosi evasori fiscali. Perché questo accanimento contro uno strumento, certamente perfettibile, ma indispensabile?

Forse, da un lato, si vuol metter le mani anche su quei miliardi, magari per ampliare ancora i contributi alle imprese; dall’altro, vi è forse l’idea che ai poveri  - per tacitare la coscienza – è meglio destinare forme di carità privata che strumenti di welfare pubblico. In ogni caso, il risultato di tutto questo parlare a sproposito è una serie di correzioni al reddito di cittadinanza contenuto nella legge di bilancio che, invece di migliorarlo, lo peggiorano.

"Fin dalla sua nascita abbiamo sottolineato che legare uno strumento di contrasto alla povertà con le politiche attive del lavoro era sbagliato e non teneva conto della peculiarità della povertà italiana, non tutta riconducibile all’assenza di occupazione", spiega la segretaria nazionale della Cgil Rossana Dettori: “Con la legge di bilancio, invece di scindere questo legame, lo si rende ancora più stretto, esattamente il contrario di ciò che si sarebbe dovuto fare”.

Ed è lo stesso Inps ad affermare, infatti, che solo un terzo degli attuali percettori del reddito di cittadinanza è occupabile. Il che significa che i due terzi di quella platea non è in condizione di lavorare, ma la norma imporrà – se il Parlamento non provvederà a correggere – che chi rifiuta un'occupazione, qualunque essa sia, anche precarissima e part time (a 80 chilometri da casa la prima volta, in qualunque posto d’Italia la seconda), perderà l’assegno. "La logica della colpevolizzazione e del controllo - continua Dettori - è arrivata al parossismo, tanto che verrà istituito l’obbligo del colloquio mensile in presenza, pena la perdita del contributo. Sembra quasi l’obbligo di firma per i detenuti al confino di tanti anni fa”.

E non solo, diceva qualche giorno fa il presidente della Repubblica Sergio Mattarella: “Bisogna evitare che si accentuino quei caratteri critici del nostro mercato del lavoro, che già in anni recenti hanno rappresentato un freno sia in termini di qualità sia quanto alla capacità complessiva di competere del sistema-Paese. La precarietà e la frammentarietà dei contratti aumentano infatti le diseguaglianze, traducendosi spesso in retribuzioni insufficienti e in un allargamento della platea dei 'poveri da lavoro', con salari bassi, lavori intermittenti e part-time involontari”.

Ebbene, pare proprio che gli estensori della legge di bilancio non abbiamo ascoltato il capo dello Stato, visto che la norma che definisce l'“offerta di lavoro congrua” consente che questa sia più precaria e con una retribuzione più bassa di quanto già non fosse. “Il problema - riprende Dettori - riguarda il mercato del lavoro nel nostro Paese, non solo frammentato e precario, ma troppo spesso gli imprenditori non si rivolgono ai centri per l’impiego e ai canali ufficiali, quindi l’offerta di posti è davvero scarsa”. Questione che certo non si risolverà appaltandola alle agenzie private. Che, anzi, saranno gravate anche dal trovare lavoro ai 2.500 navigator cui non verrà rinnovato il contratto, pur aumentando la necessità di accompagnamento al lavoro dei percettori del reddito di cittadinanza. Ma, già, occorre far spazio alle agenzia private, appunto.

Insomma, conclude il suo ragionamento la segretaria nazionale della Cgil: “La legge di bilancio interviene sul reddito di cittadinanza nel modo peggiore. È necessario modificare i criteri di accesso per superare le penalizzazioni verso minori e famiglie numerose, e le discriminazioni verso gli stranieri. E non lo fa. È necessario potenziare la presa in carico dei beneficiari per valutare preliminarmente la complessità dei bisogni sociali delle famiglie. E non lo fa. È necessario implementare i percorsi di inclusione sociale e lavorativa, potenziando la rete di servizi territoriali per accompagnare i beneficiari a superare la condizione di bisogno, ad avviare percorsi di formazione mirati e a trovare una occupazione stabile. E non lo fa. Al contrario, dà credito allo stereotipo del povero imbroglione e alla retorica della povertà come colpa, introducendo inutili modalità di supervisione dei beneficiari che rallenteranno le attività dei servizi. Insomma, ci auguriamo davvero che al Parlamento sia data la possibilità di correggere una norma sbagliata”.

Infine, un interrogativo: che senso ha istituire una Commissione per la valutazione del reddito di cittadinanza, affidarla a una delle maggiori esperte di welfare e di contrasto alle diseguaglianze come la professoressa Saraceno, e non tener minimamente contro delle valutazioni e delle proposte della Commissione stessa, ostinandosi ad andare in direzione contraria anche al buon senso?