Non tutti quelli che hanno bisogno di un sostegno economico sono in grado di lavorare. E per quelli che lo sono troppo spesso il lavoro non c’è. Contrastare la povertà e creare lavoro sono due obiettivi di un paese civile. Nel parliamo con Giordana Pallone, coordinatrice Area Welfare della Cgil.

Nelle settimane che abbiamo alle spalle si è assistito ad una sorta di colpevolizzazione dei poveri, accusati di preferire il divano ad un lavoro. Cos'è che non funziona?

Colpevolizzazione ingiusta e strumentale. Da due diversi punti di vista. il Reddito di cittadinanza è uno strumento rivolto al nucleo familiare e non al singolo, in media ammonta a 550 euro. Se in pochi hanno trovato lavoro occorre fare i conti con un'offerta di lavoro non così ampia e con l’abitudine dei datori di lavoro di non passare per i centri per l’impiego. Lì sarebbero tenuti a offrire posti nel rispetto dei contratti collettivi, perché in ogni caso i percettori del reddito sono vincolati ad accettare le offerte di lavoro che ricevono pena la decadenza dal beneficio. E poi, dato l’importo mensile medio del Rdc, forse il problema è che ai percettori della misura non sono offerti lavori dignitosi, rispettosi delle procedure legali e contrattuali, con un salario competitivo con quell’importo e non precario: difficilmente altrimenti lo rifiuterebbero. In secondo luogo è bene ricordare che solo una parte dei beneficiari sono occupabili, sono in grado cioè di lavorare. E altri ancora, in realtà, un lavoro lo hanno, ma dal salario talmente basso da non consentire il sostentamento del nucleo familiare. Ci si dimentica che stiamo parlando di uno strumento di contrasto alla povertà e non di uno strumento per creare lavoro. Ecco dimostrato come la polemica di queste ultime settimane non ha nessuna ragione d’essere.

Fermiamoci un momento sulla questione dell’occupabilità: dicevi che non tutti quelli che percepiscono il Reddito di cittadinanza sono effettivamente occupabili.

Anche questa è una questione sulla quale volutamente si genera confusione. E riguarda anche il limite originario della misura. Quando fu istituito, lo dicemmo subito, era un errore aver creato una misura ibrida, che voleva contemporaneamente contrastare la povertà e risolvere il problema della disoccupazione. Sono due questioni che viaggiano parallele e si incrociano in alcuni tratti, ma non sono sovrapponibili. La povertà è un fenomeno molto complesso, non sempre risolvibile con un'occupazione. Sia perché esistono lavoratori poveri, una parte dei beneficiari del reddito cittadinanza un lavoro ce l'ha già. Sia perché  - lo dicevo – una parte consistente dei percettori del Rdc non può lavorare o perché è in età da pensione o prossimo alla pensione, o perché ha dei carichi di  cura e la norma lo esenta dal sottoscrivere un patto per il lavoro, o ancora perché ha una disabilità grave o è privo delle competenze che gli consentano di trovare facilmente un lavoro. Sono altre le politiche e gli strumenti che andrebbero messi in campo per costruire un percorso di inclusività sociale, e dove possibile, lavorativa. Andrebbero ad esempio attivati il sostegno abitativo, quello sanitario e assistenziale in presenza di un componente della famiglia malato o non autosufficiente, quello all’istruzione nei confronti del minore, quello formativo per gli adulti a basse competenze o che necessitano di essere riqualificati, eccetera. Per questo è necessaria una presa in carico da parte dei servizi sociali che possa valutare preliminarmente i bisogni del nucleo familiare e attivare la presa in carico più efficace per favorirne l’inclusione, sociale e lavorativa.

Insomma, ci stai dicendo che la povertà è sempre un'assenza di risorse economiche sufficienti alla sopravvivenza, ma che le ragioni che determinano questa insufficienza economica possono non essere determinate dalla mancanza di lavoro o possono non essere risolvibili esclusivamente con l'individuazione di un'occupazione.

Esattamente. Il lavoro è cardine fondamentale per il reinserimento sociale, ma non sempre questo è possibile. Non solo, ma spesso non è nemmeno sufficiente. Esiste il lavoro povero, anche quando un componente della famiglia percepisce un reddito basso ma dignitoso, la composizione del nucleo familiare può essere tale da renderlo comunque insufficiente a fronte di altri bisogni cui deve rispondere (abitativi, assistenziali...). Per questo è indispensabile che le istituzioni pubbliche mettano a disposizione una rete di servizi e che prendano in carico l’intera famiglia, dando risposte ai bisogni specifici. Il sostegno economico è una componente indispensabile. Ma non è sufficiente.

Gli stessi dati dell'Inps a cui tu facevi riferimento ci dicono che non tutte le famiglie che sono sotto la soglia di povertà beneficiano dello strumento. Allora anche su questo fronte qualcosa non funziona. Forse i criteri di accesso allo strumento andrebbero rivisti.

Il Reddito di cittadinanza ha sicuramente delle criticità che ne limitano l’accesso proprio a quei nuclei familiari che ne avrebbero più bisogno. Da un lato la scala di equivalenza adottata, creata appositamente per questo strumento, con dei parametri differenti per minori e per adulti, sfavorisce e di molto i nuclei con tanti componenti, soprattutto minori. E noi siamo un Paese con oltre un milione di bimbi e bimbe in povertà assoluta. C’è poi un altro elemento discriminante; è il criterio di cittadinanza, soggiorno e residenza che penalizza molto i cittadini stranieri, in particolare extracomunitari, sia nella possibilità di formulare la richiesta perché si prevede il permesso di soggiorno per lungo periodo. Nonostante la normativa comunitaria preveda che le prestazioni sociali debbano essere riconosciute a tutti i lavoratori extracomunitari con permesso unico di lavoro, sia perché è previsto – cosa ancor più grave - il requisito di residenza continuativa negli ultimi 10 anni. Insomma norme pensate per limitare l’accesso agli stranieri, ma è l’Istat a certificare che le famiglie con un componente straniero sono circa il 30%

Insomma, come dovrebbe essere riformato, non abolito, il Reddito di cittadinanza secondo la Cgil?

Assolutamente riformato, non abolito. Ci abbiamo messo tanti anni ad avere una misura di un contrasto alla povertà, è bene tenerla. A maggior ragione dopo quello che abbiamo vissuto e che stiamo continuando a vivere, le cui conseguenze si trascineranno nel tempo. Lo strumento va riformato, innanzitutto intervenendo sui criteri di accesso, modificando la scala di equivalenza, adottando quantomeno quella dell'Isee ed eliminandone il tetto.  Poi bisognerebbe rivedere il criterio della residenza di dieci anni riducendola al massimo a due, e - come ci viene detto dall’Europa – adottando il requisito del permesso di soggiorno per lavoro e non quello per lungo soggiornanti. Inoltre andrebbero meglio distinti gli strumenti: le politiche attive per il lavoro sono una cosa, il contrasto alla povertà è un’altra. E, da questo punto di vista, andrebbe rivista la modalità di presa in carico da parte dei servizi sociali comunali, così da fornire alle famiglie quella pluralità di risposte e di interventi che la complessità della povertà impone.