Le braccia di Maria

Più terribile dell’ictus, c’è l’impossibilità di curarne gli esiti per gli effetti di una pandemia. Una volta superata la fase acuta (dopo mesi di ricovero), mi avevano raccomandato di ricorrere immediatamente alla riabilitazione. Avevo un anno di tempo dall’ictus (che mi ha colpita nel 2019) per riuscire a curarne gli esiti con terapie tempestive, costanti e qualificate. Con questo intento, i miei familiari si sono messi immediatamente in contatto con una delle migliori cliniche d’Italia, anche se molto lontana dalla nostra residenza.

Sono incorsa nelle consuete lunghe liste di attesa e dopo due mesi, arrivato il mio turno, mi è stato comunicato che a causa della diffusone del Coronavirus la clinica era costretta a sospendere ricoveri e prestazioni. Non erano in grado di dirmi quando mi avrebbero chiamata. Ho atteso altri sei mesi per la nuova chiamata, a inizio estate, abbandonando qualsiasi progetto di vacanza: armi e bagagli e via in clinica, con famiglia al seguito, la mia riabilitazione era la priorità.

Ho ottenuto un ricovero in day hospital per avviare la riabilitazione già in ritardo di sette mesi, rispetto a quando avrei dovuto iniziare, affrontando tutte le trafile e i disagi delle procedure contro il Coronavirus, cui mi sono sottoposta volentieri. Quello che ho sofferto, invece, è stato il divieto imposto ai miei parenti di starmi vicino, di accompagnarmi e poter parlare con il personale medico per informarsi sulle mie condizioni. Abbiamo proceduto all’oscuro, senza poter verificare tempi, margini e possibilità del mio recupero.

Malgrado ciò, ho continuato a fare terapia assiduamente, con tutta me stessa. Ero stata anche inserita in un progetto di terapia sperimentale per il recupero del mio arto superiore plegico, che prevedeva un certo numero di sedute. Ma quando stavo per vederne i primi benefici e ci stavo investendo tutte le mie aspettative, mi hanno dimesso a metà percorso e da un giorno all’altro. Non potendo avere una comunicazione diretta con il personale medico, i miei hanno chiesto telefonicamente quali fossero le ragioni delle mie dimissioni improvvise. Ci hanno risposto tra i denti, senza mai pronunciare la parola virus, che erano stati costretti a chiudere il reparto, per sanificarlo. Abbiamo capito da soli che il motivo della chiusura era la presenza di persone risultate positive. Alla nostra richiesta di maggiori dettagli e chiarimenti, ci è stato detto che non si sapeva quanto tempo avrebbe richiesto e che perciò, considerato che ero fuorisede, mi sarebbe convenuto tornarmene a casa mia.

Tutto qua: volevo recuperare il più possibile di ciò che l’ictus mi ha tolto. Procedere a una riabilitazione tempestiva, costante e qualificata era la mia emergenza, significava tutto per me. Ma a causa del coronavirus non ho potuto fare niente. Ora mi sono rimessa in attesa di una nuova chiamata; nel terrore che una nuova quarantena blocchi le mie speranze.

La voce di Giorgia

La voce la diamo per scontata, fa parte di noi. Non è solo uno strumento indispensabile a comunicare, è proprio un pezzetto della nostra identità, ci fa riconoscere. Quando c’è, lo troviamo ovvio, quando non c’è più, tutto diventa difficile, anche riconoscere se stessa. Però capita che come conseguenza di un intervento chirurgico ci si ritrovi con una paresi delle corde vocali e la voce, dopo sforzi notevoli, esca senza suono, sottile sottile: “sussurata” spiega il foniatra. Nella sfortuna si pensa di esser fortunati perché questo “accidente” capita d’estate, nell’estate dopo la pandemia, con ospedali e strutture sanitarie riaperte a chi è malato non di covid.

Da settembre possono partire le sedute di logoterapia per provare a recuperare sonorità e tono. “Ci vorrà tempo - afferma la logopedista che esercita con contratto precario in un grande ospedale romano – pazienza e perseveranza per provare a rieducare laringe e corde vocali”. E così la tabella di marcia del riavvicinamento alla voce prevede due sedute a settimana fino a Natale. Di settimane ne passano tre e arriva una comunicazione: troppi casi covid, la struttura ha deciso di sospendere gli accessi agli ambulatori e di effettuare le terapie riabilitative via Skype. Ora, in mancanza di meglio, si ringrazia la tecnologia che rende possibile vedersi attraverso uno schermo. Certo, si possono ripetere suoni e movimenti, ma il tocco della terapista che manipola il tuo collo, quello via pc non si può fare.

Le prime due sedute virtuali trascorrono tranquille con la precisazione della professionista che “certo ci vorrà più tempo”. Ancora di più? E la garanzia del risultato? “Non parli, signora, non parli soprattutto per telefono e in video call”, ci si sente rispondere. E così aumenta lo scoramento e la depressione. Se non si usano telefono e video call lavorando in smart working, come si fa?

Due sedute, dicevamo,  passano tranquille, certo per la logopedista riuscire a sentire via computer i sussurri della sua paziente è impresa ardua, ma per fortuna è giovane e l’udito è buono. Terzo appuntamento fissato per le 18 di un pomeriggio di ottobre quando arriva un messaggio WhatsApp: “Signora, mi perdoni, sto scappando a casa, mio marito deve fare il tampone. Ci sentiamo lunedì e le dico come procediamo”. Solidarietà e auguri, ma lo sconcerto aumenta. Arriva lunedì, poi martedì, anche mercoledì e persino giovedì. Tutto tace. Finalmente, ma dietro richiesta di novità sempre via WhatsApp, arriva un messaggio. “Mio marito è positivo, io sono in quarantena, dopo aver fatto il secondo tampone, se, come spero, sarà negativo, fisseremo un nuovo appuntamento, ovviamente via Skype”.

Un paio di interrogativi rimangono privi di risposta. In un grande ospedale della Capitale, ma anche in uno più piccolo di un’altra città, non si sarebbero dovuti predisporre percorsi separati tra covid e non covid, per preservare ambulatori e diagnostica strumentale?
E poi, la logopedista, giustamente in quarantena, perché non è stata sostituita? E perché i pazienti affidati alle sue cure sono rimasti anche privi di informazioni?