Risultare positivi al coronavirus non è una bella esperienza. Ma quello che fa veramente male è finire in un tunnel dove la burocrazia, la mancanza di ascolto e di comunicazione ti rendono ancora più vulnerabili.

Un mese fa ci hanno chiamato dall’asilo nido di nostro figlio, per dirci che un’educatrice era “positiva”. Tutti, genitori e bambini, abbiamo fatto subito il tampone. Al primo, sia io che la mia compagna siamo risultati negativi, non avevamo notizie di nostro figlio. Ma abbiamo capito che era positivo la stessa notte, quando sono comparsi i primi sintomi e senza avere ancora i risultati. Come avremmo scoperto a nostre spese, se sei negativo te lo comunicano subito, ma se risulti positivo il referto tarda davvero molto ad arrivare.

Abbiamo subito messo in atto misure di protezione e distanziamento sociale in una casa di cinquanta metri quadri. Io mi sono chiuso in una stanza, ho lavato le mani come mai in vita mia. I primi momenti sono stati di grande ansia. La febbre è venuta prima a mio figlio e poi alla mia compagna. Questa situazione di difficoltà emotiva e di preoccupazione è stata amplificata dalla totale assenza di risposte e supporto da parte della Asl del Lazio. I numeri verdi ci sono, ma nessuno risponde mai. Tanto meno alle email. I medici di base di fronte a questa malattia hanno mille dubbi e si limitano a suggerirti una tachipirina e chiedere di tenerli informati.

Se queste sono state le promesse, i problemi veri sono cominciati quattordici giorni dopo, al secondo tampone. Il referto è arrivato subito a me che ero negativo, ma nessuna notizia riguardo a mio figlio e alla mia compagna. Per i positivi non arriva mai un referto scritto. Dopo quattro o cinque giorni e diverse telefonate a vuoto, siamo riusciti a sapere che la mamma era positiva. Di mio figlio niente. I giorni passavano, senza neanche sapere se mamma e figlio potessero stare vicini, se lei potesse abbassarsi la mascherina per stare con lui, toccarlo.

Dopo sei giorni abbiamo avuto una risposta, ma tutto è avvenuto in maniera casuale. A un certo punto, una voce ha risposto al numero verde: “Ah, sì, sì, vostro figlio è ancora positivo”. A questi numeri verdi nessuno risponde mai. L’unico a cui rispondono sempre è quello del Cup regionale, ma possono solo dirti se il referto è pronto o no. L’esito lo deve comunicare la Asl.  A ogni tampone una nuova sofferenza: una trafila di telefonate e sollecitazioni che cadono nel vuoto, senza riuscire a conoscere l’esito. Il terzo tampone, a distanza di dieci giorni dal secondo, ce lo hanno fissato poco dopo aver saputo i risultati del precedente. Mio figlio e la mia compagna sono andati al drive in via Palmiro Togliatti, a Roma. Sette ore di coda chiusi in una macchina a passo d’uomo, sotto il sole anche all’ora di pranzo, con un bambino di meno di due anni. Senza bagni, senza assistenza, con pochissimi operatori sanitari. Tornati a casa, di nuovo al telefono per i risultati.

Due numeri su tre squillano a vuoto, al terzo cade subito la linea. Miracolosamente, dopo tre giorni, a un tratto una voce risponde: “É strano che abbiamo risposto, perché siamo pieni di lavoro. Abbiamo controllato, sono entrambi positivi”. Dopo trenta giorni, davanti a noi ancora un’altra settimana di attesa e l’ennesimo tampone. Chiediamo di farlo a casa per tutelare il piccolo, ma nessuno, neanche stavolta, ci risponde.

L’ultimo capitolo di questa nostra storia si apre con la circolare del ministero che riduce i tamponi negativi per uscire dall’isolamento da due a uno. Al numero verde regionale non sanno dirci se la circolare è retroattiva per chi è positivo da prima della sua emanazione. E così, finalmente negativi, mio figlio e la mia compagna sono ancora confinati a casa.

La mia compagna riceve la chiamata per una supplenza di un anno e lì finiamo in un cul de sac.  La scuola vuole una risposta subito: prendere o lasciare. Ma vuole anche un certificato che attesti che è negativa. Il medico di base dice che non è compito suo ma della Asl, che, neanche a dirlo, non risponde. L’unico modo per non perdere il lavoro sarebbe dichiarare il falso e farsi fare un certificato di malattia. Ma perché, se ora sta bene? La paura di perdere il lavoro è tanta, un’insegnante precaria non può permettersi di perdere un anno di contratto. Finalmente, leggiamo un articolo in cui la Federazione dei medici di famiglia chiarisce che loro possono certificare che un paziente che era affetto da Covid-19 non è più contagioso. La vita normale può ricominciare. Fisicamente a posto, ma psicologicamente distrutti.