"Il lavoro povero è quello che non consente un salario adeguato e quindi una vita adeguata, ma è anche un lavoro svalutato, non riconosciuto e non tenuto in considerazione per il suo reale valore". Tania Scacchetti, segretaria nazionale della Cgil, risponde così alla nostra prima domanda e spiega cos'è il lavoro povero in una conversazione che si accompagna alle testimonianze di tre donne che pur lavorando fanno fatica a far quadrare i conti.

 

 

 

Quanto è diffuso nel nostro Paese?

I dati che abbiamo raccolto, anche con l’ausilio della Fondazione Di Vittorio, ormai già da qualche anno e che finalmente sono all’attenzione pubblica dopo essere stati derubricati per molto tempo, ci dicono che nell’area del lavoro grigio, povero, in parte sommerso, stanno oltre 9 milioni di lavoratori e lavoratrici e che questa condizione di lavoro povero è determinata dalla condizione del sistema produttivo. Per anni non sono stati fatti investimenti né pubblici né privati che consentissero di ripartire dalle tante crisi che si sono susseguite, compresa quella del 2010, guardando al lavoro di qualità e alla sua creazione. A questo si è anche accompagnata la scomposizione dei cicli produttivi e la crescita di un'organizzazione post-fordista che non aveva come riferimento il lavoro a tempo indeterminato e a tempo pieno, la quale, invece, era stata in passato la condizione occupazionale prevalente. In quei 9 milioni di lavoratori più fragili e di lavoratori povero ci sono molte cose: un pezzo di lavoro generico e a basso valore aggiunto, tanto lavoro precario, tanto part-time involontario e tanto lavoro che non è solo povero ma anche sfruttato, sotto la soglia della legalità e della correttezza formale.

 

 

 

Il Covid come ha influito su tutto questo?

Paradossalmente la pandemia ha avuto il pregio di rendere visibile la distanza tra l’essenzialità del lavoro e il basso riconoscimento dello stesso. E questa è una lezione che rischiamo di dimenticare subito, invece bisognerebbe rifletterci molto. Esiste una enormità di lavoro generico, sfruttato, sottopagato – a grandissima occupazione femminile e giovanile – che tuttavia è essenziale per la tenuta del Paese, per la continuità di un pezzo consistente del sistema produttivo. Il Covid, però, ha ulteriormente indebolito proprio questo lavoro. Nonostante il sistema di protezione messo in campo in questi mesi, dall’estensione degli ammortizzatori sociali al blocco dei licenziamenti, si è perso lavoro. Meno di quante ore lavorate mancano all’appello, e questo dimostra l’importanza degli ammortizzatori sociali, ma comunque si è persa proprio occupazione fragile. Da un lato il Covid è servito proprio a rendere evidente che il lavoro è la fonte essenziale della tenuta sociale e della possibilità reale di ripartenza. Dall’altro lato, il rischio che si riapra un dibattito tutto volto alla riduzione dei diritti come unica condizione di competitività è molto grande e noi abbiamo il compito di scongiurarlo.

 

 

 

Peraltro è una visione del mondo molto miope, uno dei problemi dell’Italia è la contrazione del mercato interno. Se lavoratrici e lavoratori non hanno redditi sufficienti i consumi non ripartiranno e non riprenderà l’economia.

È una visione assolutamente miope ed è la più antitetica rispetto alla necessità di far ripartire i consumi interni, stagnanti e fermi da molti anni. Non è un caso se avevamo indicato la questione dei bassi salari come uno dei temi da aggredire anche prima del Covid, così come non lo è il fatto che oggi proponiamo alcune misure non solo nell’ottica del giusto riconoscimento del lavoro: penso al rinnovo dei contratti collettivi nazionali, alla necessità di detassare gli aumenti contrattuali per favorire i rinnovi, all'urgenza che la ripartenza si fondi sull'occupazione buona e di qualità, indispensabile per la dignità di lavoratori e lavoratrici ma anche perché è precondizione per pensare che il Paese possa di nuovo crescere.

Quali le azioni del sindacato, quali le richieste del sindacato a governo e sistema delle imprese per contrastare il lavoro povero?

Innanzitutto penso che questa debba essere la stagione degli investimenti e della creazione di occupazione. Tutte le misure devono essere calibrate e poi verificate rispetto a due obiettivi: la tenuta del lavoro che esiste - e quindi la richiesta sindacale di prosecuzione degli ammortizzatori sociali e di sostegni in una fase di emergenza come quella che stiamo ancora vivendo - e poi gli investimenti. Ciò significa grandi piani di assunzioni a partire dalla pubblica amministrazione dove queste assunzioni sono necessarie anche per recuperare la stagione dei pensionamenti che abbiamo alle spalle. Queste sono le prime due cose, la terza è il rinnovo dei contratti collettivi nazionali Con l’occasione andrebbe affrontata la questione della loro validità erga omnes e della definizione di una legge sulla rappresentanza. È ineludibile cancellare la stagione di paghe orarie inferiori a minimi dignitosi e di salari che non garantiscono un livello economico adeguato. Infine, il quarto tema che oggi è derubricato dall’agenda è un intervento sulla regolazione del mercato del lavoro. In queste settimane è stato evidente che la destrutturazione e la deregolamentazione del mercato del lavoro  - che oggi rende possibile che la maggior parte delle attivazioni dei rapporti di lavoro non siano né a tempo pieno né a indeterminato - sono tra le cause dell’impoverimento e della fragilità delle persone.