Mi chiamo Massimo, ho 29 anni, sono laureato in psicologia, iscritto all’albo professionale, ho un master universitario di II livello e una specializzazione in psicoterapia; per un totale di 10-11 anni di studi e migliaia di euro spesi. Il 31 dicembre del 2018, dopo un concorso, vengo assunto con un contratto di dodici mesi presso i centri di servizi sociali che si occupano del reddito d’inclusione. Questo contratto verrà rinnovato una volta per sei mesi e un’altra volta per 18 “meno un giorno”. Per un totale di 36 mesi “meno un giorno”, appunto. Vengo inquadrato come istruttore direttivo psicologo, dipendente del comune di Napoli, categoria D1, part-time al 50%; stipendio mensile di 880 € circa, divenuti 900 quando gli “80 euro di Renzi” sono diventati cento. In tutto siamo centosessantotto dipendenti.

Lavoro precario per contrastare la povertà, suona strano. Eppure, a me, suonava benissimo. Sembrava impossibile, eppure ero stato ben addestrato a sapere che nella mia città natale non avrei trovato lo spazio per esercitare le mie competenze, che sarei dovuto emigrare oppure fare quello che capita. Anche se, quando sei un lavoratore precario, fai due lavori (se non tre): svolgi le tue mansioni e poi cerchi un lavoro. Fai concorsi, ti prepari, accarezzi idee, fai progetti che hanno la stessa scadenza del tuo contratto. La storia è strana: sai quel che trovi e non del tutto quel che lasci. Personalmente vivevo con intensa partecipazione l’interesse nazionale per le misure di contrasto alla povertà: finito il governo a maggioranza Pd, venne il governo giallo-verde. Dunque, il Reddito di cittadinanza s’aveva da fare e non si poteva fare senza la figura, rimasta a oggi pressoché mitologica del navigator.

Francamente non ci capii un granché: si partecipava su base provinciale; potevano accedere tutte le classi di laurea; un guadagno garantito tra i 1400 ed i 1700 € al mese, contando anche i rimborsi spesa; certo, non era proprio per la pubblica amministrazione, era per Anpal, che è una S.p.a., e il contratto non era proprio da dipendente, ma da co.co.pro. Stipato sul pulmino con un carico di umanità varia, tra ingegneri ventiquattrenni, madri single, neolaureati al primo concorso e neodisoccupati, mi recai a Roma e trovai una schiera di telecamere e di giornalisti – il primo giorno. Io ero poco convinto, e continuai ad esserlo anche quando dopo una fortunata serie di crocette  mi ritrovai ad essere vincitore del concorso.

Le misure di contrasto alla povertà sono complessissime, eppure seguono a mio avviso una ratio molto semplice. Se sei indigente, o sei stato molto sfortunato, o c’è qualcosa che ti sfugge. Io ti do dei soldi per le esigenze primarie, così sei più sereno e ti rimbocchi le maniche che io ti metto a disposizione dei professionisti per aiutarti. Ineccepibile, sia per il Rei che per l’RdC. Nello specifico o c’è un problema lavorativo, e allora ci penserà il Centro per l’impiego, oppure sei preso da altro e non riesci ad accedere alla vita attiva della comunità. Perché mancano i soldi, la casa è piccola, ogni giorno è una guerra per mettere il famoso piatto a tavola, tre figli di cui due fanno i capricci per andare a scuola, un padre che per tirare la carretta esce all’alba e torna al tramonto e una madre che per arrotondare dà una mano in giro e non riesce a seguire i figli che fanno i capricci per andare a scuola.

Questo è un quadretto di fantasia, ma rappresenta bene il mio ambito di lavoro. Ambito che condivido con assistenti sociali, educatori e – fino a poco fa – amministrativi. Oltreché, inutile dirlo, assistenti sociali di ruolo esperte dei territori e dei nuclei familiari “già noti”. Ascoltiamo le persone, ci riuniamo, ci scontriamo, riconvochiamo l’utenza e stiliamo insieme un progetto che si spera possa aiutare il nucleo a venir fuori da uno stato di disagio. Monitoriamo il procedere degli interventi; instauriamo relazioni autentiche che portino le persone a formulare esplicitamente la natura dei propri problemi in modo che possano sentirsi parte attiva, e quindi motivata, nei progetti che gli proponiamo.

A dicembre 2019 scoprii che il lavoro che svolgevo al Comune era incompatibile con quello di navigator. In quel momento il precariato diventò una partita di qualche strano gioco d’azzardo, e sul piatto c’era il mio futuro. Il navigator dava più soldi, aveva una scadenza più lontana – aprile 2021 - ma era un contratto co.co.pro., non era il lavoro per il quale avevo studiato e investito per tanti anni. Dall’altra parte c’era questo rinnovo. Sarebbe stato l’ultimo? Ce ne sarebbero stati altri? Arrivò il giorno delle scelte: il rinnovo di sei mesi era ufficiale, e il giorno della firma corrispondeva alla scadenza per accettare il ruolo per navigator. Come diceva il croupier nel film di Fantozzi? Rien ne va plus! Scelsi, dopo pochi mesi arrivò il rinnovo di 18 mesi “meno un giorno” e tirai un sospiro di sollievo. Certo è ancora uno stipendio al 50%, e ha ancora una scadenza – ma ho guadagnato 18 mesi “meno un giorno” di sopravvivenza.

Detto a sufficienza della mia precarietà da lavoratore, possiamo pensare a quella dell’utenza che incontro. In linea di massima il problema della povertà è un problema di marginalità. È povero, o in stato di indigenza, chi per un motivo o per un altro è escluso dalla vita attiva, partecipativa, della comunità. È ai margini un giovane che vive in un quartiere da cui è quasi impossibile uscire a piedi, in cui passano due pullman – quando passano – e in cui ci sono due stazioni di un unico mezzo su rotaia, che quando passa regolarmente ogni 20 minuti è spesso un carnaio; in cui i primi punti di aggregazione sono nati negli ultimi dieci anni, a voler essere buoni; sto pensando al quartiere di Pianura, noto per essere uno dei quartieri con la maggior incidenza di tumori e per l’antico abuso edilizio. È altrettanto ai margini un uomo che trent'anni fa, pur nascendo in un “quartiere bene”, sviluppa una forma di depressione ansiosa, sfugge ai percorsi di cura trovando palliativi, nel migliore dei casi evitando alcool e droghe, sviluppa uno stato di semi-reclusione, vive un senso d’impotenza appreso e oggi, adulto e senza più nessun parente superstite, non sa che pesci prendere.

Il problema della marginalità ci dice che in Italia viviamo un problema di periferie: è da lì che viene la stragrande maggioranza degli utenti del Reddito di cittadinanza, e il connubio marginalità periferia è esplosivo. Tempo fa, mentre passavo per Scampia, vidi su un parco pubblico la scritta – posta a titolo del parco - “Quando la felicità non la vedi, cercala dentro”. Sarò povero d’animo, ma rabbrividii. Napoli, poi, è affascinante. Napoli è una città dalle periferie interne. Pensiamo al quartiere Chiaia, a pochi metri da dove si sarebbe lasciata morire la sirena Partenope: è possibile nel raggio di due, trecento metri, salire in attici stupendi – con vista sul golfo, sul Vesuvio, sulla Certosa di San Martino – e incontrare anche i tipici “bassi”, da cui escono i nostri utenti. Sono luoghi dalla densità abitativa che potremmo immaginare, non so, in estremo oriente. Invece lì vivono persone stipate magari in umidi 35 metri quadri, bambini diventano adolescenti, persone invecchiano insieme ai nipoti.  Il problema della povertà, della marginalità e delle periferie, è complesso e finché non viene affrontato per quello che è, potrà solo essere tamponato da assistenzialismo e dal lavoro degli operatori, precari o meno, che ogni giorno gettano il cuore oltre l’ostacolo.

Recentemente ho visto una collega che seguiva un nucleo in cui c’è un minore con esigenze specifiche molto complesse, che imponeva alla famiglia – ormai allo stremo delle forze – grossi carichi di cura e che non riusciva a trovare un ente che potesse offrirgli l’assistenza necessaria. Credo che quando, dopo un anno e mezzo è riuscita a trovare una soluzione e ha visto il volto sollevato dei genitori, si deve essere sentita come Michelangelo Buonarroti quando ha finito il dito piccolo del piede del David. Sarà il piede, sarà il dito piccolo, ma è pur sempre il David.