Debora lavora in una rsa di Vicenza. Pensa che nell’emergenza Covid siano stati commessi molti errori. E a farne le spese sono stati gli anziani, lasciati a loro stessi, dimenticati. Abbiamo raccolto la sua toccante testimonianza. Ci si è dimenticati delle Rsa nonostante quello che stava accadendo nelle altre regioni”, dice arrabbiata mentre spiega che loro, i lavoratori, avevano capito la gravità della situazione e dunque avevano già preso tutte le misure necessarie per tutelare i pazienti ricoverati. “Noi i dispositivi di protezione li abbiamo usati subito, ma le direttive tardavano ad arrivare”.

I ricoveri venivano effettuati in tutte le Rsa con un semplice triage di domande, nulla di più. Nessuna forma di isolamento e nessun tampone. “Poi a metà marzo è arrivata una signora che stava benissimo ma purtroppo l’abbiamo saputo in un secondo momento quando tutti i suoi parenti sono stati ricoverati per Covid”, dice Debora. Il Protocollo della Regione Veneto, che stabiliva regole più ferree e introduceva l’obbligo di isolamento e tampone prima del ricovero, è arrivato solo dopo, il 20 marzo.  “Eppure” – dice Debora – “il 20 marzo tutta Italia era già blindata. Tutti conoscevamo i rischi che si correvano e c’erano già tante Rsa in Lombardia dove stava succedendo un macello. Per questo dico che c’è stato il ritardo e che quel protocollo andava fatto prima, quando si bloccava l’ingresso dei parenti. E poi non ci dimentichiamo che questi ricoveri erano d’emergenza, cioè si trattava di persone che venivano dal pronto soccorso e che poi venivano mandate nelle varie strutture”.

Debora cerca di tenere duro ma è difficile. “Siamo rimasti soli. Adesso gli anziani, nel momento in cui vedono le prime aperture fuori, non riescono a capire perché ora tutto d’un tratto li dividiamo, non li teniamo più a mangiare vicini”. Già, perché il nuovo protocollo ha fatto sì che ora tutti gli ospiti debbano essere isolati, tra di loro e anche dal personale sanitario.

Ma Debora ci spiega che la faccenda non è così semplice. “L’assistenza è un contatto umano e noi non possiamo più averlo e loro sono indifesi. A livello morale vedere le persone che sono lì a scorrere gli ultimi momenti della propria vita così, fa male a noi e fa male a loro. È difficile da accettare. Basterebbe essere stati più accorti. Anche adesso basterebbe continuare a monitorare gli operatori che lavorano dentro ogni quindici giorni, cercare di stare attenti, noi non rappresenteremmo nessun pericolo per loro. E loro potrebbero almeno svolgere una vita serena, senza doversi preoccupare di non poter più mangiare vicino alla propria amica, o di essere vicini a noi”.

Parole dure, che arrivano dirette, svelando tutti gli errori fatti, a scapito degli anziani. Ora è più difficile per loro ma anche per gli operatori che lavorano all’interno. “Già non hanno più l’espressione del nostro viso e il nostro sorriso, sorridiamo e parliamo con gli occhi e con i gesti, visto che dobbiamo indossare la mascherina. Ma vedere che noi siamo tesi, stare in queste situazioni, non è vivere, non è neanche sopravvivere. La condanna più grande la subiscono loro. Perché se si sta male a casa, pensiamo a queste persone che alla fine della loro vita devono provare queste cose. Fa male. Fa male anche a noi che lavoriamo. Non ci dà stimoli e non ci permette neanche di essere sereni con loro. Lo sforzo più grande che stiamo facendo ora è trasmettergli serenità”, racconta Debora con gli occhi lucidi.

Gli anziani sono stati dimenticati e sono tuttora dimenticati. “Sembrano quasi una macchina da soldi e basta”, dice sconsolata Debora prima di salutarci. La sua tenacia e la sua voglia di essere fino in fondo accanto agli anziani racconta di un paese fatto di una grande umanità e forza di volontà. Ma purtroppo altrove si fanno errori irreparabili che rendono la vita di tanti anziani, e di tanti lavoratori, più difficile di quanto non lo sarebbe già se tutto funzionasse alla perfezione.

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