A gennaio 2023 l’occupazione cresce leggermente e, fortunatamente, riguarda in modo quasi esclusivo, quella femminile. Il tasso di occupazione sale al 60,8% (51,9% per le donne, ancora di oltre 17 punti inferiore a quella degli uomini) e il numero totale degli occupati torna a superare 23 milioni e 300 mila unità. Tutto bene, dunque? Non proprio.

Anche con questo aumento il nostro tasso di occupazione, secondo gli ultimi dati europei, è il più basso in Europa e questa distanza non tende a diminuire. Inoltre, il tasso di occupazione italiano è più di altri condizionato dall’andamento demografico del nostro Paese, infatti è solo in parte determinato dall’aumento degli occupati, mentre incide sulla sua salita prevalentemente la contestuale e drastica diminuzione della popolazione in età da lavoro. Non è l’unico problema. I contratti precari sono stabilmente attorno alla quota dei tre milioni, mentre progressivamente l’occupazione italiana invecchia.

Nel mese di gennaio, gli occupati fra 15 e 34 anni calano di 39mila unità, mentre quelli con più di 50 anni crescono di 67mila. L’aumento annuo degli occupati è per il 70% collocato in questa fascia di età più avanzata, che rappresenta ormai circa il 40% dell’intera occupazione italiana. Il Pil nel 2022 è cresciuto del 3,7%, l’occupazione dello “zerovirgola”.

Si ripropone così un meccanismo di non corrispondenza tra crescita e occupati, non solo per quanto riguarda il dato salariale o le condizioni di lavoro (precarietà, basse qualifiche, part-time involontario) ma anche relativamente alla quantità di occupazione. Con fluttuazioni sia in aumento come in questo mese, o in calo sempre molto piccole, e con evidenti differenze per genere e fasce di età.

L’uso dei dati ufficiali si presta sempre a interpretazioni molto diverse, ma al di là delle tesi che si vogliono dimostrare è bene fare riferimento alla totalità e complessità dei fenomeni che via via determinano questi dati. Bene e meglio se l’occupazione e il suo tasso aumentano come nel mese di gennaio, ma sempre valutando se in questo modo cambiano le condizioni del mercato del lavoro italiano.

Da troppo tempo, prima e dopo il periodo Covid, il termine che si può usare per fotografare questa situazione è “stazionarietà”. Questo rappresenta un problema rilevante e negativo, anche a fronte di previsioni di sviluppo inferiori a quelle del 2022 nei prossimi mesi.

Fulvio Fammoni è presidente della Fondazione Di Vittorio