Nell’aprile del 1969 a Battipaglia giunge la notizia dell’imminente chiusura di due grosse aziende della città: la manifattura dei tabacchi e lo zuccherificio. Per il 9 aprile viene indetto un corteo di protesta: già dalle prime ore del giorno, alcune centinaia di persone si radunano e, scortati da polizia e carabinieri, cominciano a muoversi in corteo al grido di "Difendiamo il nostro pane" e "Basta con le promesse". 

Nel tardo pomeriggio si arriva allo scontro decisivo: il corteo incanala la propria rabbia contro il commissariato di via Gramsci, dentro cui si sono asserragliati un centinaio di poliziotti e carabinieri che iniziano a sparare sulla folla, uccidendo Teresa Ricciardi, giovane insegnante che seguiva gli scontri dalla finestra della propria abitazione, e lo studente diciannovenne Carmine Citro. Moltissimi i feriti.

Il ministro del Lavoro, Giacomo Brodolini, già gravemente malato, forza i tempi di approvazione di quella che diventerà la legge 300 (Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell'attività sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento) chiamando Gino Giugni a presiedere una Commissione con l’incarico di elaborare in tempi brevi la proposta da sottoporre alle organizzazioni sindacali.

Intanto la Commissione lavoro del Senato prepara, e il Consiglio dei ministri approva, il disegno di legge da presentare in Aula, integrando il testo base di Brodolini e Giugni, con molti articoli ripresi dai disegni legge del Pci e dello Psiup, rafforzando la parte relativa ai diritti individuali dei lavoratori.

L'approvazione dello Statuto dei lavoratori

In particolare viene introdotto l’articolo 18 che sancisce la giusta causa nel licenziamento individuale, attribuisce all’imprenditore l’onere della prova di fronte al giudice, impone – per le aziende con più di quindici dipendenti – l’obbligo di reintegro nel caso di licenziamento giudicato illegittimo. Non passa, invece, il riconoscimento giuridico delle commissioni interne e, tanto meno, dei nuovi organismi di base (i consigli di fabbrica) che si stanno formando nelle lotte aziendali.

L’11 dicembre il disegno di legge del governo è approvato in prima lettura dal Senato. Votano a favore i partiti di centro-sinistra e i liberali, si astengono – con opposte motivazioni – Msi da una parte, Pci, Psiup e Sinistra Indipendente dall’altra.

Achille Occhetto, ultimo segretario del Partito comunista italiano ricorderà:

Quando lo Statuto dei lavoratori divenne legge mi trovavo a Palermo impegnato in una battaglia estremamente dura: impedire a Vito Ciancimino di diventare sindaco, una battaglia vinta grazie all’alleanza con le forza sane e antimafiose della città. Intanto a Roma la legge era stata molto discussa in Parlamento. Il Pci aveva deciso di astenersi perché la riteneva insufficiente. A mio giudizio si trattò di un errore, di una posizione molto miope dettata prevalentemente da motivi di politica generale e dal contrasto con il centro-sinistra che offuscò in parte le nostre idee. Il nostro Partito aveva colto dei limiti, tuttavia secondari, che si riferivano al fatto che la giusta causa avrebbe coperto solo chi lavorava in aziende con almeno 15 dipendenti. In realtà si trattò di un salto di civiltà di notevole portata per la dignità e i diritti dei lavoratori: come si disse all’epoca per la prima volta la Costituzione entrava in fabbrica, dopo tanti anni di discriminazioni che avevano colpito duramente lavoratori, sindacalisti e politici.

“Quella materia andava preservata dall’intervento della politica - è al contrario ancora oggi il parere di Aldo Tortorella - Era una materia che andava regolata dalla trattativa sindacale e non da una legge che può essere fatta, ma poi disfatta. Si poteva e si può ritenere che l’intervento statuale nella regolamentazione dei rapporti di lavoro oltre un certo limite può essere negativo, come si è poi rivelato alla lunga. L’astensione, legittima e necessaria, ha rappresentato una riserva, non una condanna del provvedimento. Trovo siano sbagliate le critiche postume, che non condivido”.

“I vari governi che si sono succeduti negli ultimi 25 anni - sottolineava in occasione del 50° anniversario della legge Maurizio Landini - allargando la precarietà, rendendo più facili i licenziamenti, nei fatti, hanno svuotato molto spesso di significato quello Statuto e quei diritti. Di fatto oggi le persone, pur lavorando gomito a gomito nello stesso lavoro, non hanno gli stessi diritti e le stesse tutele. La riunificazione dei diritti nel lavoro, il fatto che le persone nel lavoro debbano avere le stesse tutele e puntare al fatto che le persone si realizzino nel lavoro che fanno sono gli obiettivi della Cgil”.

Il sogno di Giuseppe Di Vittorio

Obiettivi per i quali lavoriamo ogni giorno, con la consapevolezza, ce lo ha insegnato Giuseppe Di Vittorio, di servire una causa grande, una causa giusta.

Del resto affermava lo stesso Di Vittorio nell’ormai lontano 1952: “Abbiamo il dovere di difendere le libertà democratiche e i diritti sindacali che sono legati alla questione del pane e del lavoro, abbiamo il dovere di difendere i diritti democratici dei cittadini e dei lavoratori italiani, anche all’interno delle fabbriche. In realtà oggi i lavoratori cessano di essere cittadini della Repubblica italiana quando entrano nella fabbrica (…)  Il lavoratore è un uomo, ha una sua personalità, un suo amor proprio, una sua idea, una sua opinione politica, una sua fede religiosa e vuole che questi suoi diritti vengano rispettati da tutti e in primo luogo dal padrone. È per questo che noi pensiamo che i lavoratori debbono condurre una grande lotta per rivendicare il diritto di essere considerati uomini nella fabbrica e perciò sottoponiamo al congresso un progetto di Statuto”.