Poco dopo l’una di notte del 6 dicembre 2007 sulla linea 5 dell’acciaieria Thyssen di Torino sette operai vengono investiti da una fuoriuscita di olio bollente che prende fuoco. Alle 4 del mattino muore il primo operaio, Antonio Schiavone. 

La lunga agonia

Nei giorni che seguiranno, dal 7 al 30 dicembre, moriranno altre sei persone: Giuseppe Demasi, Angelo Laurino, Roberto Scola, Rosario Rodinò, Rocco Marzo e Bruno Santino. Per Rocco Marzo, 54 anni, sarebbe dovuto essere uno degli ultimi turni. A fine mese sarebbe dovuto andare in pensione dopo trent’anni di lavoro. I sindacati denunciano immediatamente l’inadeguatezza delle misure di sicurezza dello stabilimento: estintori scarichi, telefoni isolati, idranti malfunzionanti, assenza di personale specializzato, turni di lavoro infiniti e massacranti. Alla strage sopravvive un unico testimone oculare, Antonio Boccuzzi.

Il ricordo non è mutato per nulla - dirà - non voglio dimenticare. Il ricordo mi tiene legato alle persone che non ci sono più e spero che anche il nostro Paese non abbia dimenticato quello che è accaduto 10 anni fa. Si era detto mai più Thyssen ma si continua a morire sul posto di lavoro.

“Quando il rogo della Thyssen suonò la sveglia portandosi via sette operai orrendamente bruciati dalle fiamme dell’inferno siderurgico alimentato dall’olio bollente - scriveva lo scorso anno Giorgio Sbordoni su Collettiva - mani sapienti si misero a scrivere un corpo normativo che purtroppo, in molte parti è rimasto lettera morta. E poi hai voglia a scriver leggi se gli ispettori sono una manciata per ogni regione, senza mezzi, trafelati da un cantiere all’altro, da una fabbrica all’altra, a tirare una coperta che lascia sempre fuori troppi corpi, esposti al rischio. Se molti imprenditori continuano a considerare un costo il rispetto delle norme sulla salute e sulla sicurezza dei loro dipendenti. Dalle catene degli appalti, che lasciano soli gli ultimi anelli, ai cantieri edili, alle linee di produzione, ai muletti e ai trattori che si ribaltano, agli uomini vestiti di giallo fosforescente sul ciglio di un’autostrada, finché non passa un guidatore distratto e se li porta via, in anni e anni di scarni lanci di agenzia lo abbiamo letto e riletto fino a stancarci l’assurdo romanzo dei morti sul lavoro, che ogni giorno tira fuori un capitolo identico a quello del giorno precedente”.

La strage continua

Purtroppo gli incidenti sul lavoro continuano a mietere vittime in Italia e da gennaio a ottobre 2022 si contano 909 morti, circa tre vittime al giorno. Dietro ogni numero c’è un nome, sempre.  909 nomi solo in questo scorcio di anno. 909 persone, 909 vite, 909 figli, figlie, mamme, papà, sorelle, fratelli che non sono tornati a casa e che a casa non torneranno mai più.  Non si tratta di numeri, non sono statistiche. Sono persone, vite sacrificate sull’altare del profitto, vite che si sono spente nell’indifferenza di tanti, di troppi.

E il cimitero dei morti sul lavoro - scrive ancora Sbordoni - continua ad allargarsi come una ferita che nessuno riesce, anzi, che nessuno vuole suturare. L’ipocrisia della tragica fatalità si ripete seguendo un copione già scritto, che nessuno salti una battuta, neanche le vittime. Gli incidenti continuano, sempre uguali a se stessi. Le cadute dall’alto, gli operai investiti nei cantieri autostradali, i muletti o i trattori che si ribaltano, le morti per schiacciamento nei rulli o nelle catene di montaggio o sotto carichi pesanti, il caldo, la fatica, lo sfruttamento. Il coraggio di chi non sente più la voce del collega e corre in soccorso, si cala nel pozzo o nella cisterna, e non ne esce più. Fino al paradosso dell’Ilva di Taranto, dove a distanza di pochi anni, due gruisti sono morti, i corpi per giorni dispersi in mare, dopo che condizioni avverse di maltempo hanno abbattuto la loro gru. Omicidi che hanno un mandante. L’incuria, l’abbandono, il disprezzo delle leggi, il risparmio, la corsa al profitto. Soprattutto, il silenzio.

Un silenzio squarciato da quel terribile “Non voglio morire, non voglio morire” di Rosario Rodinò. Parole che rappresentano un tragico monito per tutte e tutti noi.  Noi che continuiamo a pesare che il lavoro debba essere un diritto e non una condanna a morte. Noi che continuiamo a pesare che di lavoro si debba vivere e non morire.