La manifestazione del 28 novembre del 1969 è un successo enorme: 100 mila uomini e donne, arrivati con cinque treni speciali e centinaia di pullman, sfilano in un corteo lungo cinque chilometri che riempie piazza del Popolo.

“Una grande vittoria operaia”, titolerà l’Unità il giorno seguente; mentre “In 50.000 dalle fabbriche. La più grande manifestazione operaia” sarà il commento di Paese Sera.

Dirà anni dopo Bruno Trentin:

Fu la prima manifestazione sindacale di massa nella capitale dagli anni del dopoguerra e fu certamente la prima di quelle dimensioni. Ma ancora una volta non fu la dimensione - più di 100 mila lavoratori venuti da tutta Italia - il fatto più importante, bensì la mobilitazione che la rese possibile; l’autotassazione di centinaia di migliaia di lavoratori per mandare i loro compagni a Roma; il sacrificio di dover sopportare, per molti di questi, due notti in treno e una giornata massacrante di cortei, per poi ritornare al lavoro all’alba del secondo giorno; la disciplina incredibile di cui furono capaci i lavoratori quando ‘sbarcarono’ in una città terrorizzata da una campagna di stampa senza precedenti; il cordone "sanitario", fermo ma pacifico, con il quale i vari gruppi estremisti furono isolati dai diversi cortei di operai e di studenti che convergevano verso piazza del Popolo; il silenzio totale che interrompeva una manifestazione gioiosa e piena di invenzioni ludiche (nella quale esplodeva la fierezza di ritrovarsi insieme, ognuno con la propria identità di origine, di regione, di comune, di fabbrica) ogni volta che i cortei passavano davanti a un ospedale.

 

“La manifestazione - ricorderà Pio Galli - esplodeva in un crescendo di rumori - campanacci, tamburi, fischietti, megafoni - che turbava l’ordine di una città abituata a ignorare i sacrifici, l’emarginazione, il logoramento fisico e psichico della vita in fabbrica. Ma era anche una festa, un momento di liberazione dal vincolo e dalla disciplina del lavoro alla catena, un’espressione di sé negli slogan gridati e scritti sui cartelli, nei pupazzi portati in corteo. In piazza del Popolo, all’imbrunire, si accesero migliaia di fiaccole. Un elicottero della polizia ci sorvolava, provocando fischi e reazioni. Dal palco dissero che la televisione stava filmando la manifestazione. Quel giorno non cadde un vetro. Centomila metalmeccanici avevano preso possesso della città e sfilato per ore, senza che accadesse un incidente (…). Un corteo operaio possente, composto e determinato fece impressione. I metalmeccanici cominciavano a contare”.

I tre segretari generali, Macario per la Fim, Benvenuto per la Uilm, Bruno Trentin per la Fiom, ribadiscono le motivazioni e le ragioni della lotta per il rinnovo contrattuale e l’impegno per una più generale battaglia per reali riforme strutturali, sociali ed economiche.

Riforme che si concretizzano pochi mesi dopo con la firma dell’accordo dell’8 gennaio 1970. Tra i risultati più rilevanti la riduzione dell’orario settimanale a 40 ore, il diritto di assemblea in fabbrica, significativi aumenti salariali, il riconoscimento dei rappresentanti sindacali.

“Il sindacato varca quindi i cancelli della fabbrica - scriverà Sindacato Moderno - con tutto il suo potere e la sua forza (…) Un sindacato che ha avuto la capacità di collegarsi direttamente ai lavoratori e di saldare ad un confronto di massa permanente ogni suo atto, e che in questo modo è riuscito a dispiegare un imponente movimento rivendicativo in questi ultimi anni e a vincere una grande battaglia contrattuale. Il potere che oggi abbiamo tradotto anche in norma contrattuale, non è e non sarà soltanto scritto sulla carta, ma è un potere reale dei lavoratori e per i lavoratori. Si tratta cioè di un punto di partenza”.