L'analisi
Lavoratori dipendenti con retribuzioni troppo basse

I dati Inps sul settore privato confermano i salari in discesa. Servono misure contro la precarietà e il part-time involontario, ma il governo per il 2023 non le prevede
Le statistiche Inps sulle retribuzioni dei lavoratori dipendenti (solo settore privato, esclusi agricoli e domestici), confermano anche nel 2021 un livello molto basso delle retribuzioni medie annue, che si attestano a 21.868 euro lordi annui. La retribuzione annua Inps è più bassa rispetto a quella media Ocse che è calcolata, per omogeneità fra i diversi Paesi europei, sul lavoro a tempo pieno; mentre Inps considera tutti i lavoratori dipendenti con almeno una giornata retribuita nell’anno. Nel calcolo non sono considerate le retribuzioni dei dipendenti pubblici.
Le retribuzioni sono cresciute rispetto al 2020, anno pandemico, (+3,5%) ma il 2021 è stato un anno boom per il Pil italiano ed è quindi evidente come questa crescita si sia scaricata ben poco sulle retribuzioni. L’ostacolo principale è rappresentato dalle caratteristiche del mercato del lavoro italiano. Il numero dei lavoratori è aumentato rispetto al 2020, ma il numero medio di giornate lavorate è ancora inferiore al 2019, particolarmente basso nelle fasce di età fino a 29 anni dove si annida la quota principale di ricorso ai lavori precari.
In effetti, fra gli oltre 3,5 milioni di lavoratori a tempo determinato che Inps rileva nel 2021, il numero medio di giornate retribuite è circa la metà di quelle dei lavoratori a tempo indeterminato e le retribuzioni ancora più basse, circa un terzo quelle dei lavoratori a termine rispetto agli altri. Ancora più svantaggiata è la situazione dei quasi 600mila lavoratori stagionali.
Altro elemento che influisce in modo rilevante è il differenziale retributivo di genere, soprattutto per una alta presenza di lavoro part-time tra le donne: 3,5 milioni in totale di lavoratrici a part-time contro circa due milioni di uomini. In questo caso il problema si propone in tutte le fasce di età ma soprattutto tra i 30 e i 50 anni, fascia invece in cui per gli uomini cala notevolmente. Si ripropone una forte differenziazione per area geografica, rispetto alle 235 giornate medie retribuite nell’anno, nel Mezzogiorno si scende a 211, ma ancor più elevato è il divario retributivo. Fra un dipendente del Nord-Ovest e uno del Mezzogiorno la retribuzione media annua differisce di circa 10mila euro (Nord-Ovest 25.930 euro; Sud 15.842 euro).
Risulta quindi evidente che fra i tanti fattori che penalizzano le retribuzioni italiane, un problema in particolare riguarda il lavoro a tempo determinato; sia per le retribuzioni che, in generale, per l’insieme dei diritti di chi lavora. Via via che il periodo retribuito dal datore di lavoro cala il livello delle retribuzioni scende in modo non proporzionale e diventa davvero allarmante, fino alla povertà.
Meno di cinquemila euro annui lordi di retribuzione riguardano circa due milioni e 700mila persone che lavorano, in particolare per attività fino a tre mesi (circa due milioni) ma anche con retribuzioni il cui merito andrà meglio verificato perché riguardano persone che lavorano fra 6 e 12 mesi (158mila) o l’intero anno (40mila). I dati Inps confermano l’esistenza di un bacino molto vasto di 4,7 milioni di persone, con una classe di importo retributivo inferiore ai 10mila euro annui lordi (a questo calcolo manca la quota di bassi salari relativa a lavoratori agricoli e domestici). Infine, una importante diseguaglianza retributiva riguarda i lavoratori stranieri. Dei 4,7 milioni di occupati con retribuzione inferiore ai 10mila euro annui lordi, circa il 14% sono dipendenti extracomunitari (663mila).
L’insieme di questi dati conferma l’allarme retribuzioni, ed è relativo al periodo precedente la grande inflazione del 2022 e del suo probabile prolungarsi in quantità elevata anche nel 2023. È evidente quindi la necessità di interventi strutturali per risolvere il problema dei bassi redditi nel nostro Paese.
Alcuni dei principali interventi necessari riguardano: norme di legge che limitino il ricorso a una precarietà ormai dilagante e a una crescita di part-time solo legata a fattori di costo (come i dati sul part-time involontario dimostrano); un intervento fiscale fortemente progressivo di cui devono beneficiare le fasce più basse delle retribuzioni; un aumento dei salari minimi e complessivi attraverso il recepimento della direttiva europea e norme sulla rappresentanza che eliminino i contratti pirata e diano certezza ai rinnovi contrattuali. Interventi urgenti e necessari, ma di cui al momento non sono previsti nelle proposte del governo per il 2023.
Fulvio Fammoni, presidente della Fondazione Di Vittorio