La precarietà del lavoro non è uno dei temi che andrebbe affrontato dalla politica, dall’esecutivo che nascerà dopo le elezioni. È il grande tema sul quale si deve intervenire, centrale rispetto a tutti gli altri. Perché trascina con sé le innumerevoli questioni irrisolte del nostro Paese, a cominciare dalle difficoltà salariali e dalle condizioni economiche di milioni di persone, certificate dall’Istat e da altri dati ufficiali. Ne è convinto Andrea Borghesi, segretario generale di Nidil Cgil, la categoria che rappresenta e tutela i cosiddetti atipici, somministrati, partite Iva, autonomi, collaboratori, occasionali: “Milioni di persone vivono in condizioni di precarietà lavorativa e salari bassi, pur contribuendo tutti i giorni alla ricchezza del nostro Paese: questo dato è evidente e incontrovertibile” sostiene.

Da dove bisognerebbe cominciare?
Ci sono diverse cose che si potrebbero fare, molte delle quali hanno bisogno di un intervento legislativo e normativo. Innanzitutto bisogna iniziare con il ridurre le tipologie contrattuali, quello che noi abbiamo chiamato il supermarket dei contratti, cioè la possibilità lasciata alle aziende di impiegare i lavoratori usando tantissime tipologie, che si vanno a sovrapporre e creano due conseguenze: un dumping di tipo salariale, perché spesso non è previsto un minimo retributivo, e un dumping sociale, perché sopravvivono forme di lavoro che non prevedono contribuzione, sostegni sociali al reddito, o per la maternità e la malattia.

Ci può fare un esempio?
Da anni denunciamo l’utilizzo massiccio delle collaborazioni autonome occasionali, che nasconde una vera e propria subordinazione o perlomeno una collaborazione coordinata e continuativa, senza alcun parametro retributivo di riferimento, nessuna tutela, nessuna contribuzione. Penso ai rider, agli shopper, a tutte le persone che ci consegnano cibo e beni a casa. Cancellare questa forma di lavoro è tecnicamente impossibile, introdurre l’obbligo di contribuzione invece è un provvedimento alla portata che avrebbe anche una funzione anti-abusiva: a quel punto l’impresa non abuserà più di questo tipo di prestazione perché è comunque previsto il pagamento dei contributi. E se si stabilissero parametri retributivi valevoli per tutti, non ci sarebbe più dumping.

I tirocini extracurriculari e il lavoro a chiamata sono altre forme di lavoro mascherato. È così?
Sui tirocini extracurriculari abbiamo portato avanti una campagna di informazione, perché non dovrebbero essere lavoro ma formazione. Nella realtà sono la prima forma di accesso di tantissimi giovani al mercato del lavoro, mentre bisognerebbe ricorrere alle forme esistenti e a quello che la Cgil ha definito contratto unico con la componente formativa. Il contratto intermittente andrebbe poi rivisto radicalmente o eliminato perché anche secondo l’Istat è un generatore di precarietà.

Rimanendo nel campo degli abusi, c’è anche quello dei contratti a termine, giusto?
Sì, hanno raggiunto un record in questi mesi, più di tre milioni. Oltre a stabilire causali effettive di utilizzo, penso ai picchi produttivi, vanno definite regole per la stabilizzazione. Quello che vediamo oggi in molti casi è invece che il lavoratore non viene stabilizzato, ma sostituito da un altro lavoratore dopo un anno d'impiego. È la logica del turn over selvaggio che andrebbe fermata con una norma con diritto di precedenza per esempio, che impedisca la sostituzione continua dei lavoratori.

Mentre l’Ue si muove nella direzione della tutela della dignità del lavoro con l’introduzione del salario minimo, nel nostro Paese la questione divide la classe politica. Qual è il punto di vista del sindacato?
La questione dei compensi poveri è strettamente legata a quella della rappresentanza. L’Inps ci dice che per i lavoratori con partita Iva che sono al di fuori degli ordini professionali il reddito medio è di 14 mila euro l’anno, 9 mila per i cococo. Siamo ben al di sotto le medie retributive del dipendente. Ci vorrebbe quindi un pavimento retributivo o un compenso che valga per tutti, anche per chi svolge un’attività in forma autonoma. Una legge sulla rappresentanza con previsione di un salario minimo erga omnes, contratti firmati dalle organizzazioni maggiormente rappresentative che valgano per tutti, per sconfiggere anche i cosiddetti contratti pirata.

Spesso ci si dimentica del lavoro sportivo, sul quale il Nidil ha portato avanti una battaglia approdata a una riforma, che dovrebbe entrare in vigore a gennaio del 2023. A che punto siamo?
Sì, il decreto legislativo entrerà in vigore a gennaio ma andava avviato un percorso su come arrivarci. Abbiamo chiesto più volte un confronto con la sottosegretaria con delega allo sport Valentina Vezzali, che non si è concretizzato. Stiamo parlando di almeno 500 mila lavoratori, non i grandi sportivi professionisti del calcio o del basket, ma tutti quelli, allenatori, istruttori che fanno fare sport a noi, ai nostri figli, che vivono in condizione di informalità o quasi, hanno collaborazioni, nessun riferimento di carattere retributivo, nessuna iscrizione previdenziale. Non basta. Non hanno sostegni al reddito adeguati in caso di disoccupazione, prestazioni retribuite per maternità, malattia, infortunio. Per questo chiediamo ammortizzatori sociali universali che riguardino tutti i lavoratori al di là delle tipologie contrattuali. Altro aspetto spesso sottovalutato è quello dello Stato che genera precarietà.

In che senso?
Lo Stato attiva rapporti di lavoro a termine, in somministrazione, o autonomi in settori strategici, per coprire i servizi che si devono garantire ai cittadini e alle imprese. Nella sanità, negli uffici immigrazione, nelle scuole dell’infanzia, nella cultura, nei musei. Accanto a coloro che sono con contratti atipici ma regolati, ci sono lavoratori e lavoratrici che talvolta vivono in condizioni di vera e propria informalità sulla base di convenzioni tra istituzioni pubbliche e associazioni. Quello che chiediamo è un piano straordinario per l’occupazione che tenda a recuperare il rapporto tra cittadini e servizi, con condizioni di lavoro corrette.

I campi di azione sono davvero tantissimi, e il sindacato deve cercare di stare dietro a tutti, specie se la precarietà è una condizione nella quale si rischia di rimanere per anni.
È così. Anche nella somministrazione lavoro c'è un tema: se da somministrato il lavoratore fa un’esperienza e costruisce una professionalità, per poi accedere a una forma più stabile, il percorso è legittimo. Ma se diventa una condizione nella quale si rimane intrappolati per anni, è una cosa alla quale va posto rimedio. Dobbiamo tutelare, prevedere norme anti turn over, forme di stabilizzazione dopo un certo tempo, garantire la continuità occupazionale, temi che abbiamo messo al centro della piattaforma di rinnovo del contratto collettivo nazionale. In una parola, bisogna ricomporre quello che è stato scomposto: i somministrati rischiano di essere una sorta di cuscinetto, lavoratori sacrificabili in caso di crisi aziendali o di ristrutturazioni. Questo è da evitare attraverso anche l'azione sindacale inclusiva.

La precarietà è un problema enorme e sembra insormontabile. Quali sono i rimedi?
Il problema della precarietà è un fenomeno di massa e pluridimensionale: bisogna agire e trovare le soluzioni, legislative e contrattuali, mentre il treno è in corsa, con un percorso sindacale di protagonismo dei lavoratori e delle lavoratrici per uscire da questa condizione, dove i lavoratori con il sindacato al loro fianco si mettono in gioco. Questo è il percorso che stiamo provando a mettere in campo e per questo ci battiamo.