“Ho cominciato a lavorare 27 anni fa, appena conseguito il diploma, sono andata a vivere da sola e con il mio stipendio vivevo tranquillamente, riuscivo a mantenere casa macchina e divertimenti. Oggi, in proporzione, guadagno meno, certo con i 1.100 euro al mese scarsi che guadagnavo prima della pandemia da sola non ce l’avrei fatta. Poi il Covid e la cassa integrazione”.

Questo è l’inizio del racconto della vita lavorativa di Debora, la sua attività professionale l’ha quasi sempre vissuta dietro il bancone di un bar. Per 15 anni ha diretto uno dei locali più importanti del Porto Antico di Genova il Norin. Nel capoluogo ligure infatti è nata e vive, non conoscendo sabati o domeniche festivi. Aveva un contratto a tempo indeterminato ma quando si è resa conto che l’ultima società che aveva in gestione il bar, delle quattro che si erano alternate, rischiava di finire a carte quarantotto. Ha preso la palla al balzo per cercarsi un lavoro un po’ “più tranquillo”, uno che le consentisse di passare a casa la domenica e riprendere un po’ di rapporti con amiche e amici che nel corso degli anni non era più riuscita a frequentare. Oggi riflette: “Quando ho cominciato a lavorare gli stipendi erano rapportati al costo della vita oggi proprio no. Rispetto ad allora tutto è aumentato almeno del 50% mentre i salari sono rimasti sostanzialmente uguali”.

Ma facciamo un passo indietro. Appena diplomata come perito commerciale (ragioniera) Debora di lavori ne faceva tre contemporaneamente: la mattina in tribunale come precaria della giustizia, un lavoro impegnativo presso le cancellerie del Tribunale, con un contratto rinnovato di tre mesi in tre mesi, arriva all’inserimento in graduatoria sperando così di essersi conquistata il diritto alla stabilizzazione. Poi tutto si blocca e il lavoro e la possibilità di assunzione in via definita sfuma “e quegli anni lavorati lì sono andati persi”. Quindi il pomeriggio come segretaria in una agenzia immobiliare e la sera, tre volte a settimana, a servire pizze in un ristorante.

Torniamo ad oggi, o almeno a ieri. Debora decide di lasciare il bar di Porto Antico e scopre di avere oltre 300 giorni di ferie non godute e non retribuite. Questo a dimostrazione delle condizioni di diritti negati che per 15 anni sono stati la sua quotidianità. Un altro lavoro, più adeguato alle sue esigenze e ai suoi desideri lo trovano. A Genova esiste un vero e proprio polo tecnologico, si trova in zona Erzelli, due enormi palazzoni che ospitano aziende hi-tec da Tim a Vodafone fino a Liguria digitale, in quel complesso aveva appena aperto i battenti una mensa pluri aziendale e stava per aprire il bar. Le è stato fatto un contratto a tempo indeterminato ma, in attesa dell’apertura del bar che sarebbe stata la sua collocazione definitiva, con la mansione di “addetto mensa, insomma lava piatti. Certo, mi fu detto che una volta aperto il bar la mansione sarebbe cambiata. Invece così non è stato” dice Debora, rassegnata ma non troppo visto che si era rivolta alla Filcams Cgil per far valere i suoi diritti che è ben consapevole di avere.

Me poi tutto si è fermato. Con il lockdown dello scorso anno mensa e bar, insieme a tutto il resto, hanno chiuso. Cassa integrazione per tutti e tutte e quando si sarebbe potuto riaprire l’amara scoperta, la maggior parte dei dipendenti delle aziende che afferiscono alla mensa e al bar continuano ad operare in gran parte in smart work, conviene a lavoratori e lavoratrici e soprattutto alle aziende che risparmiano sui costi fissi e sui buoni pasto: “Se prima della chiusura ogni giorno andavano via almeno sette chili di caffè, oggi – quando i bar possono aprire e la Liguria in giallo c’è stata davvero poco - non se ne arriva a consumare un chilo”. E allora anche la cassa integrazione degli addetti al bar prosegue, sono in quattro e lavorano al massimo quattro giorni al mese. “Davvero è una situazione insostenibile. Abbiamo avuto ritardi nei pagamenti della cigs anche di cinque mesi e l’azienda non ci ha anticipato nulla. La cosa più dura è che non vediamo via di uscita, i numeri di prima sia a livello di pasti che di bar non li avremo più”.

“Se mi guardo indietro penso che sono contenta di non avere avuto figli, l’ho scelto e ne sono felice. Questo mondo non mi piace e non ho voluto crescerli qui. Non mi piace a livello di vivibilità, di criminalità e soprattutto di precarietà. Oggi anche un laureato non trova lavoro e se lo trova è precario, ho l’esempio in casa. Mia sorella, laurea in giurisprudenza, dottorato e master in Francia è precaria e non fa il lavoro per il quale ha studiato. Trent’anni fa non era così”. Questa la conclusione – amara - della conversazione con Debora che rispetto al futuro dice: “Spero che vaccinino presto i miei genitori, così almeno loro ricominciano a respirare un po’. Comunque, in generale, sono fiduciosa anche se per la ripresa la vedo dura”.