Il contratto siglato nel 1906 tra la casa automobilistica Itala e la Fiom sancisce il riconoscimento delle Commissioni interne, dei minimi salariali, delle dieci ore giornaliere (su sei giorni settimanali), della clausola del “closed shop” per l’assunzione dei lavoratori iscritti al sindacato, il quale funge da ufficio di collocamento.

L’istituto del Contratto collettivo nazionale di lavoro sarà ufficialmente introdotto nella legislazione italiana durante il ventennio fascista, con la promulgazione della Carta del Lavoro del 21 aprile 1927 acquisendo però valore giuridico solo anni dopo, dal 1941 quando fu inserito tra i principi generali dell’ordinamento giuridico, con valore non precettivo ma interpretativo delle leggi vigenti (nonostante non avesse valore di legge o di decreto, non essendo allora il Gran consiglio organo di Stato ma di partito, il testo della carta sarà pubblicato sulla Gazzetta ufficiale n. 100 del 30 aprile 1927. Nel 1942 la Carta del Lavoro sarà inserita come premessa e prefazione del codice civile appena modificato).

Recitava l’articolo 3 della Carta: “L’organizzazione sindacale o professionale è libera. Ma solo il sindacato legalmente riconosciuto e sottoposto al controllo dello Stato ha il diritto di rappresentare legalmente tutta la categoria di datori di lavoro o di lavoratori per cui è costituito: di tutelarne, di fronte allo Stato e alle altre associazioni professionali, gli interessi, di stipulare contatti collettivi di lavoro obbligatori per tutti gli aderenti alla categoria, di imporre loro contributi ed esercitare, rispetto ad essi, funzioni delegate di interesse pubblico”.

Ribadiva l’art. 4: “Nel contratto collettivo di lavoro trova la sua espressione concreta la solidarietà tra i vari fattori della produzione, mediante la conciliazione degli opposti interessi dei datori di lavoro e dei lavoratori, e la loro subordinazione agli interessi superiori della produzione”. Sanciva infine l’art. 11: “Le associazioni professionali hanno l’obbligo di regolare, mediante contratti collettivi, i rapporti di lavoro fra le categorie di datori di lavoro e di lavoratori che rappresentano. Il contratto collettivo di lavoro si stipula fra associazioni di primo grado, sotto la guida e il controllo delle organizzazioni centrali, salva la facoltà di sostituzione da parte dell’associazione di grado superiore, nei casi previsti dalla legge e dagli istituti. Ogni contratto collettivo di lavoro, sotto pena di nullità, deve contenere norme precise sui rapporti disciplinari, sul periodo di prova, sulla misura e sul pagamento della retribuzione, sull’orario di lavoro”.

In realtà i contratti collettivi nazionali saranno quasi sempre stipulati con grande ritardo e le leggi di tutela sui posti di lavoro, specialmente nelle piccole e medie imprese, rimarranno largamente disattese.

Superata la terribile parentesi del ventennio fascista, la Costituzione della Repubblica italiana affronterà il tema del lavoro (il termine “lavoro” non compariva mai nello Statuto del 1848) essenzialmente nella prima parte - principi generali: artt. 1, 2, 3 e 4 - e nel titolo III - rapporti economici, artt. 35-40 e 46 - , oltre a contenere alcuni riferimenti distribuiti in altri articoli.

Recita l’art. 39 della nostra Costituzione: “L’organizzazione sindacale è libera. Ai sindacati non può essere imposto altro obbligo se non la loro registrazione presso uffici locali o centrali, secondo le norme di legge. È condizione per la registrazione che gli statuti dei sindacati sanciscano un ordinamento interno a base democratica. I sindacati registrati hanno personalità giuridica. Possono, rappresentati unitariamente in proporzione dei loro iscritti, stipulare contratti collettivi di lavoro con efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti alle categorie alle quali il contratto si riferisce”.

Nei fatti, però, nel corso di tutti gli anni Cinquanta, il Ccnl rimarrà lettera morta, cambiando gradualmente la situazione a partire dagli anni Sessanta e raggiungendo la sua portata massima durante l’autunno caldo.

Se il 1968 è l’anno degli studenti, il 1969 è quello delle cosiddette tute blu. Il baricentro delle lotte si sposta dalle aule universitarie ai cancelli delle fabbriche portando a grandi conquiste in tema di democrazia (assemblea), salario (aumenti uguali per tutti), orario (40 ore settimanali), diritti e potere nei luoghi di lavoro. Sullo sfondo del rinnovo contemporaneo di 32 contratti collettivi di lavoro, cinque milioni di lavoratori dell’industria, dell’agricoltura e di altri settori fanno sentire il peso delle proprie rivendicazioni.

Solo nel 1969 saranno interessati al rinnovo dei contratti oltre 6 milioni di lavoratori: di questi 2.380.000 sono metalmeccanici, chimici ed edili. Ad essi si aggiungevano un milione e mezzo di braccianti e salariati fissi. Il 28 novembre Fiom, Fim e Uilm indicono a Roma una manifestazione nazionale, la prima organizzata da una singola categoria. Nonostante gli inviti a chiudere le saracinesche dei negozi e a tenere a casa i bambini, il successo della manifestazione è enorme: un corteo lungo cinque chilometri riempie Piazza del Popolo.

Dieci giorni dopo, l’8 dicembre, le imprese metalmeccaniche a partecipazione statale firmano l’accordo che prevede le 40 ore settimanali, aumenti salariali eguali per tutti (65 lire l’ora), parità fra operai e impiegati per infortunio e malattia, diritto di assemblea durante l’orario di lavoro. Analoghi contenuti sono accolti nel contratto dei chimici su cui si era raggiunta un’intesa di massima già il 7 dicembre e che viene formalizzato il 12: anch’esso prevede forti aumenti salariali, le 40 ore entro il 1971, diritto di assemblea e norme più rigide sull’ambiente di lavoro. L’11 dicembre è siglato il contratto dei bancari, mentre il Senato approva lo Statuto dei lavoratori.

Da allora il rinnovo del contratto nazionale sarà il principale strumento di contrattazione dei salari e delle condizioni di lavoro, oltreché la base dell’unità materiale di lavoratrici e lavoratori di tutto il Paese.

“Tra quest’anno e il prossimo anno tra pubblico e privato ci saranno 12 milioni di lavoratori alle prese con il rinnovo del contratto - diceva qualche giorno fa il segretario generale della Cgil Maurizio Landini - Siamo di fronte a passaggi che non dobbiamo allungare. Chiederemo anche al governo le risorse, perché il contratto della sanità e quelli pubblici vanno rinnovati. Insisto sui contratti nazionali non perché siano alternativi alla contrattazione aziendale ma perché il contratto nazionale rimane lo strumento che è in grado di dare risposte a tutti, di alzare e unificare il livello di qualità in senso generale”.

“Rinnovare i contratti - ribadiva Landini - non è solo questione salariale, ma anche di diritti. Ed è venuto il momento di una legge sulla rappresentanza, visto che sono aumentati i contratti pirata, firmati da soggetti che non hanno rappresentanza e servono per abbassare salari e diritti”. Se non ora, è proprio il caso di dire, quando?