L’accordo c’è, lo Stato entra nel capitale dell’ex Ilva. L’intesa è stata raggiunta oggi (lunedì 30 novembre) tra ArcelorMittal e Invitalia. L’agenzia nazionale per gli investimenti inizierà con una quota del 50 per cento, poi nel giugno 2022 arriverà al 60, con il contestuale abbassamento al 40 della quota della multinazionale franco-indiana. “Non è un progetto finanziario, ma un progetto industriale strategico”, ha spiegato l’amministratore delegato di Invitalia Domenico Arcuri, al tavolo con i sindacati che si è tenuto nel primo pomeriggio. La stipula del contratto di coinvestimento è fissata per giovedì 10 dicembre, mentre per la metà della settimana prossima è convocato un nuovo incontro con i sindacati per l'aggiornamento e l'approfondimento tecnico sul piano industriale.

“La decisione del governo di entrare in ArcelorMittal attraverso la controllata Invitalia è importante”, spiega la segretaria generale della Fiom Cgil Francesca Re David, considerando “positivo che lo Stato entri negli asset strategici dell’industria di questo Paese, a partire dalla siderurgia: è una garanzia e una scelta di politica industriale”. Lo Stato, sollecita la leader sindacale, non deve quindi “limitarsi a un intervento di natura finanziaria, bensì deve assumere nella nuova società una funzione di indirizzo strategico del progetto industriale”.

 


Francesca Re David evidenzia, però, che “la trattativa sta andando avanti esclusivamente tra governo e ArcelorMittal” e che le informazioni in possesso dei sindacati “sono insufficienti, in particolare quelle che riguardano gli aspetti legati al piano industriale, di cui sono state anticipate soltanto le linee generali”. Secondo tali linee si dovrebbe realizzare “nell’arco temporale che va dal 2020 al 2025 una ridefinizione degli aspetti impiantistici, con l’introduzione di un ciclo misto di produzione dell’acciaio da forno elettrico e da altoforno, con l’affiancamento di piattaforme per la produzione di preridotto”.

Questo assetto impiantistico dovrebbe garantire un volume di produzione di otto milioni di tonnellate a regime e l’utilizzo di 10.700 addetti. Ciò comporterebbe l’utilizzo della cassa integrazione per un massimo di 3 mila unità nel 2021, di 2.500 nel 2022, di 1.200 nel 2023, e zero nel 2024. “È evidente – riprende la segretaria generale Fiom – che questa ipotesi è lontana dall’accordo sindacale del 6 settembre 2018, in cui è previsto il vincolo occupazionale anche per i 1.700 lavoratori in amministrazione straordinaria, e che i tempi della transizione per il completamento del piano industriale al 2025 sono difficilmente sostenibili sia per quanto riguarda il numero di lavoratori interessati sia per gli attuali livelli di copertura salariale previsto dagli ammortizzatori sociali”.

Francesca Re David osserva, inoltre, che “tempi così lunghi di implementazione del piano industriale non sono compatibili con una condizione degli impianti e degli stabilimenti in cui cresce l’insicurezza dovuta alla mancanza di investimenti sulla manutenzione ordinaria e straordinaria, come dimostra anche il crollo della ‘torre faro’ di oggi a Genova”. In conclusione, la leader Fiom rimarca che “se il 10 dicembre si dovesse pervenire alla firma definitiva dell’accordo di coinvestimento, si aprirebbe l’avvio di una trattativa con il nuovo soggetto. Per quanto ci riguarda, l’accordo sindacale non potrà prescindere dalla piena occupazione in tempi e modalità sostenibili”.