Correva, Milano, prima della crisi da Covid-19. Correva più veloce dell'Italia e delle altre province lombarde. Con un tasso di occupazione al 70,6% ( +10% negli ultimi dieci anni, a fronte di un dato nazionale pressoché invariato) e un peso cospicuo della componente femminile (il 46% della forza-lavoro, contro il 42% della media del Paese), il capoluogo ambrosiano si stava lasciando alle spalle le recessioni del 2008 e del 2011. Investito dalla pandemia, il tessuto produttivo della città rischia ora di sfaldarsi. Nei primi sei mesi dell'anno 40.000 persone hanno perso il lavoro. Di queste, 30.000 hanno anche smesso di cercarlo. A rilevarlo è Antonio Verona, analista Cgil del mercato del lavoro milanese. Le sue stime, redatte sulla base dei più recenti dati Istat, consentono di tracciare il profilo dei nuovi inattivi: soprattutto uomini, tra i 40 e i 50 anni, con un titolo di studio medio-basso. “La percentuale occupazionale di diplomati e laureati è inalterata, ma è caduta vertiginosamente quella di chi ha solo la licenza media ed elementare”. Si tratterebbe di persone provenienti da attività di piccole dimensioni, nel settore del commercio e dei servizi. Molte di loro – mette in guardia Verona – corrono il rischio di scivolare in forme di lavoro in nero o irregolare.Il pericolo principale, però, resta quello della totale assenza di lavoro.

A sottolinearlo è il segretario generale della Filcams Cgil di Milano Marco Beretta. I dati registrati finora potrebbero aggravarsi nei prossimi mesi. “Tanti bar e piccoli ristoranti hanno chiuso bottega, senza nemmeno dare un preavviso ai dipendenti”. Nelle aziende medio-grandi, invece, l'emorragia occupazionale è stata scongiurata “dal blocco dei licenziamenti e dalla cassa integrazione. Ma se questi strumenti non dovessero essere prorogati, andrebbero in sofferenza anche le catene di negozi, le mense aziendali, i grandi alberghi”. A venirne colpito non sarebbe un settore minoritario: commercio, ristorazione e alloggio costituiscono il 26% della struttura economica meneghina.Le lavoratrici e i lavoratori di questo ramo hanno già scontato una sovraesposizione al contagio nei mesi successivi al lockdown, quando “ristoranti e supermercati hanno smesso di contingentare gli ingressi. Magari prima di farti entrare ti misurano la febbre, ma poi all'interno c'è una marea di gente”, denuncia il sindacalista. Per di più, “stiamo parlando di lavoratori fragili, con basse qualifiche professionali. Perdendo il posto, parecchi di loro potrebbero fare fatica a ricollocarsi sul mercato”, anche perché “alcune filiere potrebbero ridimensionarsi o scomparire, senza che ci sia un comparto pronto a riassorbirne la manodopera”.

A mancare è dunque la prospettiva che aveva salvato “la capitale morale” a partire dagli anni Settanta, quando il cuore produttivo del Paese si è spostato dal triangolo Milano-Torino-Genova verso il Nord-Est. Da allora, le industrie lombarde si sono concentrate a Bergamo e Brescia, province più vicine alle nuove realtà manifatturiere confinanti. Nel capoluogo, invece, si sono sviluppate una serie di attività del terziario, in linea di continuità con la tradizione industriale precedente (marketing, pubblicità, finanza). Un processo, quello della “terziarizzazione”, che tuttavia non ha prodotto solo effetti positivi. A oggi Milano ha la società più polarizzata di tutta Italia: il ceto medio è migrato verso le fasce più abbienti della popolazione, ma la differenza di reddito tra classi più e meno agiate si è acuita. Stando alle cifre della Camera di commercio locale, il 40% della ricchezza è concentrata nelle mani dell’8% della popolazione; il 10% più facoltoso detiene il 40% dei redditi, mentre il 10% più povero raggiunge appena lo 0,6% del totale.