Il Paese è stato appena sommerso dalla seconda ondata. Eppure c’è chi ancora non riesce a riemergere dalla prima. È la dura realtà di chi, tra gli altri, fin dal marzo scorso è finito nel grande bacino di quelli a cui sono stati destinati gli ammortizzatori sociali per covid, ma, ad oggi, ha ricevuto una miseria rispetto a quanto gli sarebbe spettato. Lavoratori che da un giorno all’altro sono finiti in Fis, il fondo di integrazione salariale, e che anche con la ripresa hanno fatto i conti con una fortissima riduzione delle ore di lavoro e a tutt’oggi sono costretti a vivere lunghe settimane di sostegno al reddito. Peccato che questo sostegno ci sia, sulla carta, ma non arrivi nelle tasche. È la storia, una delle tantissime, di Teresa Cofano, cameriera ai piani dell’Hotel Terminus di Napoli, catena Star Hotel. Settore turismo, letteralmente decimato, in termini di affari e presenze, dalla pandemia.

“Sono entrata in cassa covid il 2 marzo. L’hotel ha chiuso un paio di giorni dopo ed è rimasto chiuso fino al 6 luglio. Da allora, dalla riapertura, ho lavorato 3 giorni a fine luglio, 4 giorni ad agosto, 3 a settembre, 4 a ottobre”.

Il suo contratto di riferimento è quello del turismo. Un full time a tempo indeterminato. Con i colleghi sono in tutto una ventina e tutti lavorano una manciata di giorni al mese, visto che l’occupazione delle camere dell’hotel non arriva neanche a metà capienza: in media una trentina di camere al giorno su 170. “Viene applicata una sorta di rotazione equa tra tutti i lavoratori. Il resto del mese è tutto cassa covid. Quando arriva. Noi dovremmo ricevere l’80 per cento dello stipendio. In realtà non le ho mai viste veramente. A volte dopo 4 settimane mi sono arrivate anche solo 200 euro”. Una condizione difficilissima, quella di Teresa, separata con due figli a carico e un affitto da 500 euro.

Quanto ti manca da percepire? Fa prima a dirmi fin dove arrivano i soldi già ricevuti. “La mia Fis covid è stata pagata fino alla prima settimana di maggio. Il massimo che ho toccato, in un mese, è stato di 600 euro”. Eppure il suo stipendio andrebbe da 900 a 1500 euro. Siamo lontani dall’80 per cento promesso con gli ammortizzatori.

“Sinceramente ho perso ogni speranza di riceverli per tempo. Gli arretrati non me li aspetto né domani, né il mese prossimo, ma prima o poi me li aspetto. Spero che non si sveglino una mattina e ci dicano che sono finiti i fondi”.

Hai chiamato l’Inps per sollecitare una risposta? “È un’impresa rintracciarli quelli dell’Inps. Se li chiami ti dicono che è l’azienda ad avere ritardi, se chiami l’azienda la risposta è che la responsabilità è dell’Inps. Tu stai nel mezzo e non sai mai di chi sia la colpa. Sei in una situazione disagiata al massimo, ma nessuno ti spiega dove sia il problema. Anche se, a rigor di logica, una volta che l’azienda ti gira il numero di protocollo della tua pratica, il processo è avviato e quindi l’Inps dovrebbe pagarti. Eppure i ritardi sono biblici”.

Le proteste e i flash mob organizzati con la Filcams Cgil e gli altri sindacati non hanno ottenuto risposte. Tutto resta paralizzato. Come hai fatto a tirare avanti? “Mi sono trasferita con i miei figli da mia mamma – ammette Teresa –. La priorità è assicurare ai miei figli un tetto sulla testa, il cibo, i vestiti, la scuola. A qualcosa, rimasta quasi senza reddito, dovevo rinunciare. Anche perché le bollette di acqua, luce e gas continuavano a correre, nessuno ci è venuto incontro su questo aspetto, nessuno è intervenuto a calmierare le spese. Adesso ho uno sfratto che diventerà esecutivo il 5 dicembre”.