“Con noi sei in famiglia”. Recita così lo slogan che si legge sul sito dei supermercati Famila, il gruppo cui fa capo il punto vendita di Casalpusterlengo, nel lodigiano, che ha appena licenziato un dipendente a 17 mesi dalla pensione, in seguito a una lunga assenza dovuta al covid e a seri postumi causati dal contagio. Suona stonato per l’ennesimo eroe della pandemia, scaricato senza tanti complimenti dal datore di lavoro non appena se ne è presentata l’occasione. La storia, raccontata dai protagonisti, Fabrizio e sua moglie Doriana, potete leggerla QUI. I fatti sono questi. Il licenziamento è stato motivato con il superamento del periodo di comporto. Il periodo di comporto è “il tempo durante il quale, in caso di assenza per malattia o per infortunio, il lavoratore ha diritto a conservare il posto di lavoro”. Il superamento di questo periodo è motivo di recesso dal contratto per il datore di lavoro. Peccato che, al di là di ogni considerazione di carattere morale e di responsabilità sociale, secondo il decreto Cura Italia (basta leggere le FAQ pubblicate sul sito ufficiale del ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali), “il periodo trascorso in quarantena con sorveglianza attiva e in permanenza domiciliare fiduciaria con sorveglianza attiva … dai lavoratori dipendenti del settore privato è equiparato a malattia ai fini del trattamento economico previsto dalla normativa di riferimento e non è computabile ai fini del periodo di comporto”. Al lavoratore in questione, una volta dimesso dall’ospedale dopo 11 giorni di ricovero, è stata imposta la quarantena, che non dovrebbe dunque rientrare nel comporto e che ha dato alla Filcams Cgil la motivazione per impugnare il licenziamento.

“Abbiamo appena finito l’incontro con l’avvocato – ci racconta Ivan Cattaneo, segretario provinciale della categoria del commercio –. Visto che è di 180 giorni il periodo di comporto spettante ai lavoratori del settore, dai conteggi che abbiamo fatto, tenendo conto delle disposizioni del Decreto Cura Italia, togliendo i 16 della quarantena imposta dopo il ricovero ospedaliero, ce ne risultano 174 e non 190 come ha concluso l’azienda. In poche parole siamo ancora pienamente dentro al periodo di comporto”.

“C’è il rammarico di avere a che fare con aziende che sempre di più se ne stanno approfittando – ci spiega Ivan Cattaneo –. Qui c’è stato persino il caso di un rappresentante dei lavoratori per la sicurezza che è stato licenziato perché durante il lockdown denunciò situazioni di assembramento. L’azienda l’ha accusato di abusare del proprio potere. Anche questo rls, a suo modo, è una vittima del covid, anche lui ha perso il lavoro a causa delle sue denunce. Le aziende se ne stanno approfittando. Hanno adulato i propri dipendenti durante la fase critica, li hanno chiamati eroi per il ritorno di immagine, e poi gli hanno dato un calcio nel sedere ora che il peggio è passato e, dove c’è stata occasione di farlo, li hanno licenziati. Sono in cattiva fede. Per questo abbiamo, come sindacato, attivato percorsi di lotta diversi, attaccando le aziende anche sul piano dell’immagine e della responsabilità sociale”.

Ma cosa si deve fare in queste situazioni? Lo abbiamo chiesto a Silvino Candeloro, del collegio di presidenza dell’Inca Cgil nazionale. “Il patronato prende in carico il lavoratore dal momento in cui si verifica il contagio da coronavirus e occorre fare la denuncia di infortunio. Se l’Inail riconosce l’infortunio, il lavoratore ha diritto a un’indennità temporanea per tutto il periodo in cui non lavora. Dal momento in cui si chiude l’infortunio, si passa alla valutazione dei postumi, che l’Inail normalmente fa dopo 6 mesi. Come Inca Cgil seguiamo i casi lungo tutto il percorso. Conclusa la fase amministrativa, subentra una fase medico legale di valutazione dei postumi. Quindi una fase legale. Questo per quel che concerne il rapporto con l’Inail, al fine del riconoscimento dell’infortunio e di eventuali postumi (i quali, a seconda della gravità, daranno vita al riconoscimento del danno biologico o di una rendita). C’è poi la questione del danno differenziale, quando si prova che quell’infortunio è responsabilità del datore di lavoro, perché non ha rispettato tutte le regole e le procedure in materia di salute e sicurezza. In questo caso si va dalla richiesta di un risarcimento attraverso una conciliazione all’azione giudiziaria”.