Durante il lockdown circa otto milioni di italiani hanno continuato a lavorare da casa o comunque da remoto. Questi i dati trapelati da un' indagine sullo smart working promossa dalla Cgil e dalla Fondazione Di Vittorio. Prima dell'epidemia a lavorare da remoto erano solo 500mila persone. Il ricorso forzato a questo strumento è stato notevole, una sfida tecnologica e non solo, sia per le realtà private che per quelle pubbliche del nostro Paese.

Lo smart ha assolto, in particolare per le pubbliche amministrazioni, un'importanza strategica: ha permesso che lo Stato continuasse a erogare i propri servizi e le proprie prestazioni scongiurando i rischi derivanti dai contagi nei luoghi di lavoro, in un momento in cui le strutture sanitarie quasi al collasso non potevano permettersi un' incremento ulteriore del numero dei ricoveri.

Io lavoro in una struttura pubblica: l'Inps. Nella mia sede sono stato tra gli ultimi a iniziare il periodo di lavoro “lontano dall'ufficio”. I primissimi giorni sono stati di adattamento, con collegamenti che per forza di cose spesso andavano a rilento a causa dell'alto numero di utenze connesse: non dimentichiamoci che in molte amministrazioni, incluso l'istituto per il quale lavoro, si passava infatti da un numero marginale alla quasi totalità dei dipendenti in smart working.

Dovevo collegarmi la mattina presto o in orario serale per trovare una velocità di connessione accettabile. Il lavoro ingente degli informatici ha permesso di eliminare gradualmente le criticità iniziali e di rendere agevole le connessioni, così da permetterci di procedere regolarmente alle lavorazioni telematiche da effettuare, anche negli orari normali. Se è vero che con lo smart si acquista flessibilità e si possono ritagliare spazi di autonomia, è altrettanto vero che vita personale e lavorativa tendono a sovrapporsi, con periodi trascorsi davanti allo schermo spesso più lunghi di quelli ordinari in ufficio.

Personalmente quello che mi è più mancato del lavoro ordinario sono state le relazioni lavorative, il contatto diretto con il mio team e l'organizzazione in generale: quella telematica purtroppo non può sopperire a tutto. Così, quando ci è stata data la possibilità, ho chiesto il rientro volontario in ufficio e ho ripreso a lavorare regolarmente in sede. Se dovessi dare un giudizio, direi che lo smart working ha fatto sì che in piena emergenza pandemica il nostro Paese continuasse a produrre e a dare servizi: la sua funzione in definitiva, circoscritta a tale periodo, è stato essenziale.

Ma terminata questa fase e ritornati alla normalità mi chiedo: cosa ne sarà dello strumento? Sicuramente meriterà una regolamentazione affinché diventi davvero smart e non si riduca ad una mera connessione da casa, come spesso è stato finora. Occorre favorirne l'utilizzo per determinate categorie, ad esempio per i pendolari fuori sede, le persone con bambini, quelli che hanno problematiche deambulatorie o comunque problemi fisici e, ovviamente, per i lavoratori più anziani.

È necessario aprire un'ampia riflessione, perché se lo smart anziché residuale divenisse massivo, non sarebbero esenti neanche gli effetti collaterali. Non dimentichiamoci che lo smart working per come è stato strutturato fino ad ora comporta la promiscuità tra la sfera lavorativa e quella privata; implica il venire meno della socializzazione nei luoghi di lavoro, l'atomizzazione dell'organizzazione lavorativa, con tante persone che rischierebbero di finire “isolate” davanti al Pc.

Non è una remota possibilità che si perdano i legami lavorativi, i vantaggi del confronto diretto con il proprio team e la propria struttura. Si rischia di generare, appunto, una frammentazione tra lavoratori che soprattutto nel comparto privato sarebbero i più esposti alle pressioni aziendali sulla soluzione dei problemi. Non è difficile da prevedere, ad esempio, che molti dipendenti cercheranno di risolvere nelle ore serali, o meno congestionate dal punto di vista delle connessioni alla rete, le problematiche non risolte durante il regolare orario lavorativo. Insomma il pericolo è che il livello di subalternità venga ad aumentare.

A fronte di un risparmio nei costi che soprattutto i fuori sede sostengono per recarsi a lavoro, è altrettanto palese che tutta una serie di utenze e i costi connessi vengono traslate dal datore del lavoro sul dipendente: energia elettrica, riscaldamento, telefonia, internet, carta, toner, a volte perfino le spese per l'acquisto del notebook o dei vari driver.

Anche dal punto di vista sindacale dovremmo porci alcune domande: già sensibilizzare i colleghi sulle tematiche sindacali è difficile quando si è fisicamente sui posti del lavoro, ancora di più lo sarebbe con la maggior parte dei dipendenti in smart. Si perderebbe il senso delle assemblee, delle rivendicazioni collettive, sarebbe difficile coinvolgere i lavoratori nei processi decisionali a meno di non volersi accontentare di una mera rappresentanza per delega. Insomma anche nel sindacato occorre aprire un dibattito sul tema e affrontarlo senza pregiudizi né remore.