In Italia sono circa dieci milioni i lavoratori con il contratto scaduto. Viviamo in un Paese "senza contratto", come ha certificato l'Istat: il capitolo dedicato al tema nel rapporto annuale parla chiaro. Ai circa 5,5 milioni di dipendenti con contratto scaduto a fine 2019, se ne sono aggiunti quasi altrettanti dall'inizio del 2020. A fine aprile erano in attesa di rinnovo otto dipendenti su dieci: quasi i tre quarti dei lavoratori del settore privato - rispettivamente il 72% e l'82% dell'industria e dei servizi - e in aggiunta tutti i lavoratori pubblici. Nel corso di quest'anno il contratto scadrà per un altro 6% dei dipendenti.

I contratti scaduti che riguardano il maggior numero di lavoratori nel comparto industriale sono quelli dei metalmeccanici, dell'alimentare, del legno-arredo e della gomma-plastica. Il contratto atteso da più tempo nel comparto industriale è quello dei grafici-editoriali - più di quattro anni - che regola l'attività di oltre 92 mila dipendenti, i quali subiscono una perdita di potere d'acquisto pari al 3%. Tra i servizi privati (4,1 milioni di dipendenti) ai primi posti ci sono commercio, logistica, attività socio-assistenziali. Per i rinnovi pubblici c'è l'appuntamento fondamentale della legge di bilancio a settembre: in quella si dovrà verificare l'entità delle risorse disponibili per il triennio 2019-2021.

Fino a poco fa la situazione più critica riguardava i dipendenti della sanità privata, con contratto scaduto da 14 anni: ma per questi lavoratori lo scorso 10 giugno è stata firmata una pre-intesa, che si tradurrà poi nel rinnovo. Situazione difficile per chi opera nei servizi di vigilanza e nelle pulizie locali, con contratto scaduto da anni e un'erosione salariale rispettivamente del 3% e del 4,2%. Per tutti i dipendenti del comparto pubblico il contratto è scaduto dalla fine del 2018. Per i lavoratori della presidenza del Consiglio e i dirigenti delle Regioni e autonomie locali si attende ancora la chiusura del triennio 2016-2018.

Molti tavoli di confronto si stanno aprendo o si apriranno a breve, mettendo seduti insieme i sindacati e le associazioni datoriali. Ma, nel Paese segnato dal Covid, è chiaro che la situazione non sarà facile: il sistema di relazioni industriali "si trova ad affrontare una stagione contrattuale decisamente straordinaria", scrive l'Istat. Un modo per dire che le trattative per i rinnovi risentiranno delle condizioni economiche rese particolarmente difficili dall'emergenza sanitaria, che ha un forte impatto sull'attività economica presente e futura. D'altronde le stime parlano chiaro: nell'arco di quest'anno un'impresa su tre rischia di chiudere, secondo previsioni diffuse sempre dall'Istituto. E la commissione europea ha rivisto al ribasso il Pil italiano: si attende un -11,2% a fine 2020, all'ultimo posto nell'eurozona.

Tutte condizioni che rendono i rinnovi complessi. Servirà un impegno straordinario delle parti sociali: da un lato saranno chiamate a definire accordi per garantire lo svolgimento in sicurezza di tutte le attività, dall'altro dovranno tenere conto della sostenibilità dei costi per i rinnovi, soprattutto nei settori più colpiti dalla crisi. Inoltre sul tavolo ci sono altre questioni, intervenute negli ultimi mesi: prima tra tutte la revisione della parte normativa, che dovrà considerare la flessibilità della prestazione, gli orari e il cosiddetto "smart working", ovvero il lavoro da remoto imposto dall'emergenza Covid e finora mai regolato.

In questo scenario, nel campo delle relazioni industriale, si inseriscono le posizioni di Confindustria. Il nuovo presidente Carlo Bonomi le ha ribadite a più riprese, invocando una "ridefinizione del lavoro" da compiere proprio attraverso i prossimi contratti, superando "il vecchio meccanismo dello scambio tra salario e orario". Proprio ieri Bonomi è tornato a parlare in una lunga intervista al Corriere della Sera, criticando il "governo fermo" e chiedendo "subito riforme per fisco e lavoro". Sul lavoro, in particolare, a suo avviso occorre "distinguere le crisi tra quelle reversibili, da gestire con una Naspi riformata". L'assegno "andrebbe subordinato all'esercizio della condizionalità: se mentre percepisci la disoccupazione rifiuti un posto di lavoro perdi il contributo. Dove invece ci sono crisi strutturali e quindi irreversibili ha senso usare la cassa integrazione", ma "di un tipo soltanto". Gli industriali vogliono ridurre il perimetro del contratto nazionale per allargare quello dei negoziati di secondo livello. La risposta della Cgil è stata netta: il contratto nazionale non si tocca. Non è pensabile un contratto "leggero" per poi demandare alcune materie fondamentali alla contrattazione decentrata.

Per il sindacato i contratti vanno rinnovati, sono fermi da troppi anni, e il Ccnl non può fare solo da cornice: inaccettabile sarebbe anche pretendere rinnovi con aumenti salariali vicini allo zero. Gli incrementi in busta paga servono per riconoscere il lavoro, soprattutto di chi è rimasto all'opera nei giorni dell'epidemia, e per sostenere il potere d'acquisto che favorisce la ripartenza della domanda interna. Anche così si esce dalla crisi post-Covid. La forzatura tentata da Confindustria rischia di ricadere nelle trattative per i singoli rinnovi nelle categorie. Ma il sindacato avverte: proprio oggi, nell'Italia durante e dopo il virus, il contratto nazionale è più che mai fondamentale.