Dalla culla alla tomba, l’azienda provvede a tutto. Perché l’azienda è tutto. Era questo il sogno del paternalismo industriale che dettava i tempi di lavoro e di vita in cittadine edificate alla bisogna: a Saltaire, fondata dall’industriale tessile inglese Sir Titus Salt, nei quartieri operai di Molhouse in Francia, nei villaggi d’acciaio dei Krupp in Germania. E, da noi, a Valdagno - regno del conte Marzotto - o a Schio, “governata” da Alessandro Rossi, solo per citare i più noti. Tutti a far concorrenza all’utopia della New Harmony di Owen, a scansare il conflitto sociale delle prime leghe di resistenza, a contrastare le rivendicazioni dei sindacati nascenti. Dalla seconda metà dell’Ottocento fino a inizio Novecento, tutti con l’incubo del socialismo addosso, la realtà di un welfare ancora inesistente e per questo convinti di dover rispondere anche fuori dalle fabbriche alle esigenze di una comunità messa al lavoro. “Per rendervi laboriose, felici e fedeli, pecorelle mie”, diceva il “buon padre” Cecilio Vallardi rivolgendosi alle sue operaie.

Dall’infanzia alla vecchiaia, con scuole, case, spacci, chiese, persino cimiteri. Rispecchiando nella vita la stessa gerarchia presente in cotonifici o acciaierie. Ne è emblema ancor oggi visibile, il borgo di Crespi d’Adda, villaggio industriale creato dal niente, ora patrimonio Unesco, dove l’unica strada d’accesso scandisce con i suoi edifici quelli che erano i tempi e i luoghi di riferimento della comunità operaia: la fabbrica con accanto il castello padronale, la chiesa, la scuola, il negozio alimentare e l’osteria, le villette dei dirigenti, le casette degli impiegati, gli edifici multipiano per gli operai. Per arrivare al cancello del cimitero, dove sempre termina il viaggio: al di là, sul fondo, la tomba monumentale del fondatore-padrone – Cristoforo Benigno Crespi - al centro di un emiciclo in cui sono ospitate le salme di dirigenti e impiegati, ai loro piedi i più umili tumuli dei lavoratori e dei loro familiari.

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Il lavoro dava tutto e tutto si prendeva, anche il posto al cimitero. Era molto di più dell’industria come propulsore dell’economia e della società, era l’occupazione di ogni spazio della vita e la risposta a ogni suo bisogno, in supplenza di una nazione che non se ne occupava: era l’azienda che si faceva stato, la “fabbrica totale”. Funzionava, almeno fino a un certo punto, finché il conflitto superava il consenso, o quando il paternalismo non bastava più: a Valdagno ci misero un po' d'anni, ma poi, nel 1968, di fronte ai licenziamenti, la statua del conte Gaetano Marzotto la buttarono giù.

Cambiano tempi e tecnologie, sorgono nuovi problemi, resta l’antica ambizione di dare risposte forti, complessive, "totali". L’ultima la offre Toyota che ai piedi del monte Fuji sta iniziando la costruzione di Woven City, letteralmente la “città intrecciata”. Ci vivranno duemila persone – dipendenti del colosso dell’auto e loro familiari - in un ecosistema alimentato a idrogeno e gestito dall’intelligenza artificiale, in cui tutto sarà green. L’emergenza ambientale chiama, gli stati balbettano, Toyota risponde, a modo suo. E non pensa più di produrre solo auto: progetta, produce e vende la mobilità, un sistema di vita, di cui i mezzi di trasporto sono parte, non unico mezzo. La fabbrica non è più il centro attorno cui ruota tutto il resto, ma dal resto in qualche modo separata: dopo essersi diffusa sul territorio e spezzettata in mille decentramenti, la “fabbrica” diventa la città stessa. La produzione non è più “solo” quella svolta nell’orario di lavoro – ormai talmente flessibile da poter occupare, grazie alle connessioni, ogni minuto della vita. La catena del valore è potenzialmente in ogni atto dell’attività umana. E dov’è il lavoro? Ovunque e in ogni momento, tutt’altro che scomparso.

La nuova utopia capitalistica mette all’opera tutto e – di nuovo – a tutto vuole dare risposte. Woven City è un prototipo del futuro: una “città totale” di proprietà aziendale, in cui persone Toyota si muoveranno su mezzi di trasporto Toyota, a guida autonoma e zero emissioni, progettati qui e costruiti altrove, just in time e su catene di montaggio alimentate da uomini e robot. Per rispondere a necessità, bisogni ed emergenze reali della nostra epoca. Tutti. Mettendoli a profitto. Di un privato. Dov’è lo sfruttamento? Ovunque. Esattamente come faceva Cristoforo Benigno Crespi più di cent’anni fa. Ancora oggi la Toyota Motor Company è un’azienda a conduzione familiare, il presidente e Ceo è Akio Toyoda - nipote di Kiichiro, il fondatore dell’impero – ha un patrimonio personale di un miliardo di dollari, la sua “paga” lo scorso anno non arrivava ai 400 milioni e non è nemmeno tra i centro uomini più ricchi del mondo. Ugualmente, se non una statua, si meriterà una tomba monumentale, a Woven City.