Cristian Sesena, all’improvviso dall’8 marzo il Paese ha scoperto il lavoro da casa. Un obbligo per contenere la pandemia, ma anche un'opportunità?

Sì, è stato un trovarsi catapultati in una dimensione che conoscevamo solo parzialmente e in una maniera limitata. Lo smart working non nasce con la pandemia: nasce nel 2017 da un dispositivo di legge nell’ambito del Jobs Act, ma non è stato diffuso, è stato usato perlopiù da professionalità alte e impiegatizie. Dall’8 marzo in poi è successa una sorta di rivoluzione, per molti aspetti anche negativa, che ha rinchiuso milioni di lavoratori fra le mura domestiche, utilizzando uno strumento impropriamente definito 'smart working': in realtà, un dispositivo improprio di protezione individuale, perché il fine ultimo del tenere i lavoratori a casa era quello di evitare spostamenti e rischi di contagio. È chiaro che la facilità, seppur in maniera deregolamentata, di questa trasformazione ha prodotto un cambio di paradigma così importante che ci pone interrogativi rispetto alle potenzialità dello strumento.

Può dunque essere la via per la costruzione di un nuovo modello di organizzazione del lavoro integrato?

Potenzialmente lo è o potrebbe diventarlo, ma bisogna essere in grado di ricostruire un corredo di diritti e di tutele attorno a chi lavora in smart working che la pandemia con un colpo di spugna ha cancellato. Occorre fare un’azione di natura contrattuale, ma anche culturale rispetto a questo strumento. Attualmente quello che i lavoratori e le lavoratrici stanno conoscendo non è un lavoro agile né tanto meno intelligente.

Il tempo si è trasformato da unità di misura per contenere lavoro e affermare diritti a strumento senza confini per sovrapporre incombenze lavorative e domestiche. Questo vale soprattutto per le donne, ma non solo.

Verissimo. Ricordiamoci che il lavoro prestato in maniera tradizionale permette un governo del tempo perché si basa su ritmi e rituali che ci consentono di gestire la giornata, spesso a fatica, correndo e con una buona dose di stress, che però ha l’idea di un ingranaggio consolidato. Il successo dello smart working pre-Covid stava nel fatto di poter erogare la prestazione non solamente da casa, ma anche da altri luoghi, ed è importante sottolinearlo. Visto, inoltre, che era destinata a pochi giorni al mese, consentiva una reale organizzazione finalizzata anche alla conciliazione, perché presumeva la possibilità di programmare.

Ma questo sembra essere totalmente saltato...

Esatto. Ci siamo trovati in una situazione che chiamo la 'tempesta perfetta': non solo si è stati costretti a lavorare da casa, ma spesso con i bambini da far studiare e giocare, con anziani e magari disabili da accudire. Qualunque ipotesi che lo strumento potesse servire alla conciliazione non solo è saltato, ma lo strumento stesso si è rivelato un boomerang. Si è conosciuta una frammistione stressantissima e pericolosa tra il tempo di lavoro, molte volte frammentato e allungato, e il lavoro di cura, in gran parte caduto sulle donne che hanno conosciuto una dimensione del lavoro da casa ben lontana sia dall’idea del legislatore del 2017 sia da quella che è stata l'esperienza contrattuale – sebbene non amplissima – dal 2017 al 22 febbraio del 2020.

Spaesamento è uno dei termini più evocati per definire l’esperienza di smart working: all’improvviso senza più regole né confini, senza più il confronto, la relazione con i colleghi e le colleghe...

Spaesamento, sì, ma anche smarrimento e solitudine. Sono le tre esse che fotografano la situazione, nel lavoro tradizionale scadenziamo la nostra giornata lavorativa attraverso rituali che ci danno anche un perimetro certo di quello che siamo all’interno di un organigramma aziendale, di un tessuto relazionale che è parte del nostro lavoro. Ci siamo trovati in una situazione dove tutto questo è sparito. Per di più non abbiamo avuto la formazione necessaria né il tempo per costruirci nuovi confini. Tutto ciò ha provocato innanzitutto l’allentamento dell’identità stessa del lavoratore, anche perché sono diventati fluidi e intermittenti i contatti con l’azienda e con i colleghi. Tutto è stato demandato al “remoto” con la difficoltà che questo comporta. Non ci sono state preparazione, formazione e consapevolezza di quella che è la differenza tra un lavoro tradizionalmente prestato e uno svolto da remoto.

Approfondiamo allora questa "consapevolezza". Cosa vuol dire lavorare in smart working?

Cambiare la propria professionalità, dotarsi di una serie di competenze, lavorare per delega e quindi assumere un’autorganizzazione rispetto al compito che si deve svolgere. Ma significa anche subordinare il quando si svolge la prestazione al risultato. E avere l’opportunità di creare un equilibrio nuovo tra vita e lavoro. Tutto questo non c’è stato: il risultato è lo spaesamento, uno smarrimento rispetto al proprio ruolo, alla propria professionalità e al proprio futuro, oltre a una forte sensazione di solitudine. Non mi stupisce che gli imprenditori elogino questa modalità di produzione, così si lavora molto di più. È così perché a chi sta a casa non è stata fornita la cassetta degli attrezzi per costruire i confini su ciò che è lavoro e ciò che non deve esserlo.

Salute e sicurezza riguardano solo quelli che svolgono la propria attività in fabbrica, in ufficio o nei negozi, o anche quei lavoratori e quelle lavoratrici che sono tra le mura domestiche?

È una questione trasversale, in questa fase si dà una lettura della salute e sicurezza eminentemente legata al rischio contagio da Covid-19, quindi è differente se si lavora da casa o fuori. Però il lavoratore in smart working dovrebbe avere una cultura della prevenzione e della salute e sicurezza perché è sottoposto a una serie di rischi, da quelli fisico-posturali a quelli legati all’utilizzo dei dispositivi collegati all’elettricità. Esiste poi una questione, dal mio punto di vista rilevantissima, che è quella dello stress da lavoro correlato: l’assenza di una vera cultura del diritto alla disconnessione e la mancanza di conoscenza di una serie di tutele e prescrizioni che la legge del 2017 prevede, come ad esempio il rispetto del contratto collettivo di lavoro (e quindi dell’orario che però è in mano al lavoratore), lo espongono a rischi rilevanti. Vi è, infine, un’altra questione che riguarda i dipendenti pubblici e non solo, quella della cyber security, senza avere nozioni su come comportarsi rispetto a virus o hackeraggi della rete.

Siamo da poco entrati nella Fase 2: molti e molte sono tornati nei propri luoghi di lavori, altri continuano da casa. Con poca consapevolezza dei propri diritti. Quale ruolo per il sindacato e per la contrattazione per oggi e, soprattutto, per costruire questa nuova organizzazione del lavoro per il futuro?

La parola d’ordine è osare e proporre. Il rischio pesante che potremmo incontrare è che, parafrasando uno degli hashtag più diffusi dall’inizio della pandemia, non ne usciremo migliori. Abbiamo una crisi economica importante, purtroppo sullo sfondo ci sono ricette del passato che hanno pesantemente fallito, che però rischiano di essere comode e riproposte da qualche non illuminata associazione imprenditoriale, cioè il fatto di contenere i costi, a partire da quello del lavoro, senza produrre un atto di coraggio, e quindi investire in ricerca e qualificazione. La questione dell’organizzazione del lavoro va gestita con alcune stelle polari, dalla salvaguardia occupazionale alla sicurezza, ma bisogna cogliere questa occasione per intavolare una prospettiva diversa.

E quale dovrebbe essere questa prospettiva?

Un lavoro che sia più formato, con un investimento reale nell’alfabetizzazione digitale in modo da consentire un effettivo e democratico ricorso alle potenzialità delle reti e del digitale, dando la possibilità di aumentare il livello di partecipazione sfruttando l’intelligenza dei lavoratori e non semplicemente rendendoli attori passivi di decisioni che le imprese si inventano per traghettare fuori dalla crisi. Per quanto riguarda lo smart working, la riorganizzazione complessiva deve essere finalizzata allo stare meglio, ad aumentare la produttività lavorando meno ma lavorando meglio. La modalità da casa, insomma, può giocare una funzione qualora diventi più democratica possibile e sia, appunto, una possibilità e non un obbligo che si dà alle lavoratrici e ai lavoratori. E soprattutto, oltre a essere uno strumento utile per organizzare meglio i tempi di vita e di lavoro, può diventare anche uno strumento di crescita professionale, valorizzando l’aspetto di autorganizzazione del lavoro per obiettivi che lo smart working in sè ha e che deve recuperare.

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Quanto questa modalità di organizzazione del lavoro incrocia alcune sfide della contemporaneità: dall’innovazione digitale alla riconversione ambientale dell’economia e della produzione? E come prepararsi?

Ritengo sia necessario mantenere su questi temi un approccio a 360 gradi. Dal momento in cui si parla di turni e modalità di lavoro occorre ricordarsi che bisogna contemporaneamente ragionare dei tempi delle città e della mobilità. Quando si ragiona di lavoro da casa non si può dimenticare che lo smart working in sé non ha alcun tipo di valore aggiunto se non viene innervato in un progetto più ampio, le cui finalità debbono devono essere sia aiutare le lavoratrici e i lavoratori a una migliore conciliazione dei tempi di lavoro e di vita sia convincere le imprese che quell’utilizzo può essere utile ad abbattere la mobilità privata e funzionale a politiche ambientali indispensabili. Infine, è uno strumento anche di autoverifica e di ampliamento delle competenze digitali che spesso si praticano inconsapevolmente. Tutto questo dovrebbe costituire una politica industriale, il più possibile condivisa, che dovrebbe portarci a un reale cambiamento.