Se la fase uno è stata, al suo avvio, una sorta di onda anomala che ha colto il mondo del lavoro impreparato a gestire l’emergenza, bisognoso di strumenti inizialmente difficili da reperire e investito da dubbi e paure, la seconda fase, da poco avviata e scandita da riaperture scaglionate, si presenta come una sfida altrettanto impegnativa. Si apre, per tutta la cittadinanza, la convivenza con il rischio e la sua gestione: la vita che si rimetterà in moto nelle prossime settimane sembra un’enorme orchestra che deve accordare gli strumenti e trovare una nuova sintonia.

Nel commercio, come in tanti altri comparti, la sicurezza è l’ossatura senza la quale il lavoro non può stare in piedi. I sindacati hanno creato comitati dedicati nelle aziende, con rappresentanti dei lavoratori e della sicurezza, per continuare a tenere alta l’attenzione sul tema ed evitare a quanti devono ancora tornare in attività di sperimentare le stesse criticità vissute dagli esercizi che non hanno mai chiuso, partendo con le adeguate tutele. Ai comitati il compito di intrattenere un dialogo costante con l’azienda sull’organizzazione della sicurezza e vegliare sul rispetto dei protocolli sottoscritti con Confcommercio e Confesercenti, che vanno a integrare i decreti governativi per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus covid-19, adattandoli alle specificità del settore.

“All’inizio non sapevamo cosa fare, non eravamo preparati e dai media arrivavano informazioni disparate. Vedevamo che le cose cambiavano, ma l’unica che non cambiava era il nostro lavoro: non sapevamo più come gestirlo” racconta Camilla, lavoratrice del Super Store Coop di Livorno. Le mascherine al principio non si trovavano e la mamma di una collega le ha cucite per tutto il reparto: i lavoratori hanno scoperto una nuova solidarietà reciproca, ma soprattutto si sono resi conto della loro importanza. “Abbiamo restituito al Paese l’unico barlume di normalità che rimaneva in un mondo che ormai di normale non aveva più niente”, osserva Camilla. Ora ricevono una mascherina nuova al giorno, il lavoro è stato riorganizzato, gli scaffali vengono riforniti la notte e la mattina presto per evitare di mescolare addetti e clienti, ma mentre si attenuano queste preoccupazioni se ne affacciano altre, di ordine economico. “Non sappiamo come inciderà questa vicenda sul lavoro – dice Camilla – potrebbe essere stato messo a rischio il nostro salario, il nostro futuro”.

Il contratto integrativo aziendale è scaduto da anni e la trattativa per il rinnovo appariva già complessa prima che divampasse la pandemia, che l’ha interrotta. Ripresa il 6 maggio in videoconferenza, rivela adesso i timori dell’azienda e la sua intenzione di mettere in discussione il contratto integrativo. “E questo ci preoccupa – spiega Camilla – perché l’integrativo raggruppa diversi istituti che incidono sul salario, come le maggiorazioni festive e domenicali. Non sappiamo ancora cosa ci aspetta, è prematuro fare questo passo indietro. Con l’impegno che ci abbiamo messo e le difficoltà che abbiamo vissuto, non è questo il modo di ringraziarci”. L’esperienza di questi mesi ha modificato vendita e consumi e “non è detto che sia uno scenario apocalittico. Abbiamo scoperto che non si muore di fame se il supermercato resta chiuso un paio di giorni, vediamo incrementate le vendite dal lunedì al venerdì, concentrate la mattina e il primo pomeriggio. Un nuovo modello di consumi è possibile se c’è la volontà di attuarlo” spiega ancora Camilla, indicando nuove prospettive al posto di una battuta in ritirata che depaupera i lavoratori.

Si stanno intanto organizzando e stanno valutando i loro punti deboli i colleghi degli esercizi commerciali che riaprono i battenti il 18 maggio. “Le criticità stanno nel contingentamento della clientela – spiega Claudia, che lavora in un punto vendita Zara, a Milano - regolare il flusso senza calcolare i metri calpestabili ma le dimensioni dei negozi comporta il rischio di assembramenti. L’azienda ci chiede un comportamento responsabile e virtuoso e allo stesso tempo disponibile con la clientela. Apriremo subito i camerini, e questa è l’altra criticità: spazi stretti, senza ricambio d’aria, chiusi da tende in tessuto. Dovremo sterilizzare con il vapore ogni capo provato e poi lasciarlo 36 ore in quarantena”.

In queste giornate preparatorie è costante lo scambio con l’azienda, che “sta modificando continuamente i protocolli, realizzandone per ogni segmento del negozio”. Ai dipendenti sarà misurata la febbre tutti i giorni e, oltre ai dpi di rito, riceveranno delle salviette per igienizzare i dispositivi che utilizzano per lavorare; si prevede una pulizia straordinaria al giorno degli ambienti e sanificazioni periodiche. “Saremo divisi in gruppi di lavoro che non entreranno mai in contatto tra loro – racconta Claudia – e lo stesso atteggiamento responsabile deve essere osservato fuori dal negozio: niente sigaretta o pranzo insieme, le distanze vanno mantenute anche fuori”.

La cassa integrazione, intanto, non è ancora arrivata. “C’è chi ha chiesto l’anticipo del tfr. Ci troviamo tra la necessità di ricominciare a lavorare e la paura che questo porti a una nuova quarantena”. Per Claudia c’è un pensiero in più, il suo viaggio da pendolare da Novara a Milano rischia di diventare lungo e difficile, perché “i treni una volta raggiunto il numero di passeggeri consentito non si fermano neanche”. Dovrà arrivare già in divisa, calcolando il tempo per lasciare la borsa negli spogliatoi, dopo aver verificato che non ci sia nessuno dentro. Per la pausa pranzo una saletta dove possono sostare quattro persone alla volta, per un massimo di 20 minuti. “Il covid ha cambiato le nostre abitudini – conclude – e spero che possa portare anche qualche cambiamento positivo nella vita dei lavoratori. Le aziende regolano le aperture in base al movimento della clientela: sarebbe bello se la clientela si comportasse diversamente”. Sarebbe bello se una giornata così lunga e complicata potesse finire a un’ora più giusta.