È del tutto evidente: non è stato smart working, quello che moltissimi italiani hanno svolto nella fase 1 e che continueranno a svolgere nella fase 2 del nostro tempo pandemico. L’abbiamo letto così, ma l’abbiamo pronunciato in modo diverso: telelavoro, lavoro a domicilio, lavoro agli arresti domiciliari, ciascuno di noi secondo la sua declinazione preferita. È stato ed è fondamentale: ha tenuto in piedi posti di lavoro e reddito, e ha svuotato le città dal pericolo del contagio. Ma si è trattato di un’esperienza forzata di lavoro da remoto praticata in modo autarchico e sperimentale, senza formazione e preparazione, improvvisando videochiamate, scaricando software su software, gestendo male, spesso molto male, gli orari di mansioni sempre più dilatate nel tempo, sebbene concluse nello spazio.

E sostenendo anche i costi della connettività. Uno studio sugli oneri della didattica a distanza diffuso dall’osservatorio nazionale Federconsumatori dimostra che, tra computer o tablet, webcam, microfono, antivirus, pacchetto di programmi base e connessione a internet una famiglia arriva a spendere da 370 a quasi 3.500 euro (considerando abbonamento antivirus, i programmi base e i costi di connessione su base annua). Cifre, commenta Federconsumatori, che “risultano proibitive per molte famiglie, specialmente quelle colpite dalle conseguenze che la pandemia sta determinando sul piano economico”.

Ora, nella fase 2, e nella 3, nella 4 ecc. (perché da questa esperienza collettiva di lavoro a distanza non si tornerà indietro) è venuto il momento di voltare pagina e di organizzare le cose in modo più corretto. Per fare in modo che un sedicente smart working non si trasformi in iper working o telelavoro coatto. Senza dimenticare che nell’anno del Covid-19 essere remotes - categoria di lavoratori a distanza individuata dallo studioso Robert Reich (ministro del Lavoro della presidenza Clinton) accanto agli essentials, agli unpaid e ai forgotten - è stata una fortuna e in molti casi un privilegio. Ma senza trasformare tutto ciò, sulla scorta di un senso di colpa inesatto, in un universo senza vincoli né diritti.

Una versione semplificata di lavoro agile
Per fare chiarezza, la Cgil nazionale ha diffuso una nota che spiega meglio le cose. E ricorda che, in base alla legge 81/2017 che l’ha istituito, il lavoro agile è “una modalità di lavoro che si svolge in parte in azienda e in parte all’esterno della stessa”. Il datore di lavoro e il lavoratore siglano un accordo scritto che disciplina la prestazione lavorativa svolta all'esterno dell’azienda. In particolare - precisa la confederazione di Corso d’Italia - l’accordo deve stabilire: i tempi di riposo e un orario di lavoro che non può superare quello previsto dal contratto nazionale di riferimento; il diritto alla disconnessione; il trattamento economico e normativo che non può essere inferiore a quello applicato ai lavoratori che svolgono la stessa mansione; le condotte sanzionabili a livello disciplinare; gli strumenti in dotazione; l’eventuale formazione; le fonti di rischio per la salute. Ancora: “È prevista la volontarietà del lavoratore e la possibilità di recesso, la priorità alle lavoratrici nei tre anni successivi alla conclusione del periodo del congedo di maternità o per coloro che hanno figli in condizioni di disabilità grave”.

Durante l’emergenza Covid-19, ricorda ancora la Cgil, “il governo è intervenuto sulle modalità di accesso allo smart working introducendo una versione ‘semplificata’ e deregolamentata, estendibile per l’intera durata dello stato di emergenza ad ogni tipo di lavoro subordinato su tutto il territorio nazionale. Viene esteso il diritto alla priorità per i lavoratori disabili, per coloro che assistono un portatore di handicap, o lavoratori, lavoratrici affetti da gravi patologie”. Ma le tutele rimangono e vanno rispettate: orario di lavoro nei limiti di durata massima dell’orario giornaliero o settimanale; condizioni ambientali di lavoro adeguate; dotazioni informatiche aziendali o del lavoratore se d’accordo; formazione e certificazione delle competenze.

Il dibattito e i numeri
Tornando alle categorie: c’è il telelavoro, c’è lo smart working e - secondo alcuni analisti - c’è il lavoro agile (in sostanza un’evoluzione del secondo). Sono modalità molto diverse, come spiega Renato Fioretti in un utile articolo pubblicato su Eguaglianza & Libertà. E&L riporta la testimonianza di un’esperta di smart working, Maria Vittoria Mazzarini che, intervistata al riguardo da Donna Moderna, ha precisato: “Alla base del lavoro agile c’è la libertà. Libertà di scegliere di lavorare nelle modalità, tempi e posti più funzionali al raggiungimento degli obiettivi. Quindi l’imposizione forzosa ne snatura l’essenza. (...) Se ci si trova di punto in bianco proiettati in una dinamica di lavoro a distanza, non è detto che la situazione sia tanto smart (intelligente): processi non definiti, tecnologie non note o che fanno le bizze, poca dimestichezza con gli strumenti; inoltre il ‘vero’ smart working non è mai 7 giorni su 7 e nemmeno è la forma prevalente”. Conclude Mazzarini che quello svolto in lockdown è stato “telelavoro, senza confonderlo con lo smart working che in Italia è adottato - con soddisfazione reciproca - dal 58 per cento delle grandi imprese, dal 18 per cento delle Pmi e dal 16 per cento nella pubblica amministrazione”.

La pensa in modo diametralmente opposto lo storico Mauro Boarelli, che, in un articolo dal titolo significativo (Le false promesse del lavoro agile) apparso su Gli Asini, argomenta: “Spesso le indagini sullo smart working evidenziano come la sua adozione rappresenterebbe un miglioramento nella motivazione dei lavoratori. Ma se un lavoro non è interessante, perché dovrebbe diventarlo se svolto da casa, in solitudine? L’unica risposta possibile è che in questo modo si rinuncia ad agire insieme agli altri per modificarlo, per migliorarlo e si cerca una soluzione personale, contrattata direttamente con il datore di lavoro. La logica smart è la logica dell’individualismo”.

“Smart working - sostiene invece Simone Cosimi su Wired.it - significa procedere per obiettivi, slegati dagli orari tradizionali e dal controllo asfissiante, e risponde a valutazioni più qualitative, per così dire. Al momento, invece, tanti lavoratori sono tumulati in casa – il che configura già di per sé una situazione diversa dallo smart working – e incollati 24 ore su 24 a un qualsiasi schermo (o pronti ad attivarlo in qualsiasi momento, che è la stessa cosa)”.

Tanti lavoratori. Ma quanti? I numeri circolati in questi giorni sono impressionanti e noti. Si va da una platea potenziale di 8 milioni, secondo l’Osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano, ai due milioni di persone che, in base alle stime di Nomisma, chiederanno di proseguire con qualche forma di lavoro a distanza anche quando l’emergenza sarà conclusa. La Cgil ha altri dati, sulla base di una rilevazione in corso curata dalla Fondazione Di Vittorio che sarà diffusa prossimamente. Al momento fanno fede i numeri resi noti a inizio maggio dal ministero del Lavoro riguardo al settore privato: “Al 29 aprile risultano 1.827.792 lavoratori attivi in modalità smart working; di questi, ben 1.606.617 sono stati attivati a seguito delle norme sull'emergenza epidemiologica”, fa sapere il ministero.

Un’opportunità da gestire
Il sindacato - ci spiega Tania Scacchetti della segreteria nazionale Cgil - “ha sempre guardato con interesse al lavoro agile. Una nuova modalità di prestazione può essere uno strumento importante di riorganizzazione del lavoro, perché può liberare un ruolo maggiore, un nuovo protagonismo dei lavoratori nell'espletamento delle prestazioni. E può rispondere a esigenze di flessibilità e conciliazione sempre più urgenti”.

Se fatto con intelligenza e attraverso la contrattazione, lo smart working è utile anche nella gestione della vita e degli orari delle metropoli, non solo dei lavoratori. Ma ci sono - prosegue Scacchetti - delle criticità da superare attraverso la contrattazione. Dobbiamo evitare che diventi uno strumento di gestione unilaterale da parte del datore di lavoro. Deve nascere non da un accordo tra datore e lavoratore, ma da una gestione collettiva, aziendale o nazionale”, precisa Scacchetti. Non deve essere, invece, “uno strumento di pressione eccessiva sul lavoratore”. Il rischio è quello di “un aumento di produttività fortissimo”, e di trasformare lo smart working in qualcosa di “più sfruttato e ‘sfruttante’ del lavoro in sede”.

Secondo la dirigente Cgil l’uso flessibile che se ne sta facendo durante l’epidemia “è significativo, perché dà continuità ad attività lavorative e sostanza a misure di contenimento sanitario che limitano gli spostamenti”. Ma l’aspetto più significativo è forse un altro: “Guardando ai settori pubblici, questo terremoto ha reso evidente che una trasformazione è possibile anche in luoghi dove la norma faticava a entrare in vigore”. Certo, ammette Scacchetti, “non è ancora smart working. Le persone si sono auto attrezzate, e spesso non è stato possibile scegliere, mentre l'opzione è un tema importante. E lavorare totalmente da remoto e da casa, se portato alle estreme conseguenze, rischia di far perdere elementi di socialità e vita collettiva fondamentali”. Senza dimenticare gli oneri sulle donne: “Dovendo anche seguire i figli, hanno sommato due attività lavorative. Abbiamo ricevuto molte segnalazioni di aumento dello stress da lavoro-correlato, ed è comprensibile, perché non si è fatto lavoro agile in condizioni ideali”.

Ora - conclude la segretaria nazionale Cgil - “dobbiamo guardare agli scenari e alle opportunità. Della legge apprezziamo il fatto che si rimanga nell’alveo del lavoro subordinato, ma la stessa legge rende obbligatorio l’accordo individuale tra le parti. Invece è necessaria la contrattazione collettiva. Nessuno in Cgil pensa a un contratto specifico sullo smart working. Pensiamo a inserimenti nei contratti nazionali con regole quadro. Passate le prime settimane di emergenza, bisogna recuperare l’accordo con le persone e un diritto alla reversibilità. Abbiamo però l’occasione di creare uno strumento di innovazione e liberazione del lavoro, da usare non con i numeri di queste settimane e con l’assenza totale, ma con un mix concordato tra presenza e remoto”.

Lo stress, la salute, l’isolamento
Torniamo al presente. Stanchezza, affaticamento, ipertrofia di un orario che sfugge dal controllo del lavoratore. Infine: solitudine. Siamo ancora in tempi di epidemia e di paura, ed è giusto chiudere sulle note dolenti. “Proteggere la salute mentale di chi lavora da casa”: è l’indicazione principale data dall’Ilo, l’agenzia Onu sul lavoro, nel suo Rapporto su Covid-19 e lavoratori. L’Ilo non parla di smart working, nel suo Rapporto, ma dell’impatto della quarantena sulla salute mentale di chi lavora da remoto. Ciò che preoccupa l’organizzazione sono gli “effetti psicologici negativi, tra cui sintomi di stress post-traumatico, confusione e rabbia”. Inevitabile menzionare “l’enorme onere per i genitori che lavorano”, chiamati “ad assumere i ruoli di insegnanti e assistenti, mentre continuano a svolgere il loro lavoro”.

Per l’Ilo “potrebbe essere necessario apportare alcuni adeguamenti agli obiettivi lavorativi, un adattamento o una riduzione dell’orario di lavoro o accordi specifici di congedo per i telelavoratori con responsabilità di assistenza e di scolarizzazione a domicilio”. E questo vale soprattutto per quei remotes che devono occuparsi dei figli e della casa da genitori single, spesso madri lavoratrici.

La raccomandazione dell’Ilo è che si stabiliscano e rispettino “regole chiare sui tempi di disponibilità o indisponibilità dei lavoratori”. Ed è “essenziale che i lavoratori creino le proprie strategie personali per una gestione efficace delle linee di demarcazione del lavoro dalla vita privata. Ciò dovrebbe includere uno spazio di lavoro dedicato che non consenta interruzioni, e la possibilità di interrompere il lavoro in determinati orari riservati al riposo e alla vita privata”.

Altrimenti si entra in un piccolo, grande incubo in loop.