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Editoriale

La cura del lavoro

Foto: Marco Merlini
Gabriele Polo
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Semel in anno, dicevano gli antichi. Per parlare di una cosa fuori dalla quotidianità, straordinaria. E il Primo maggio è davvero una giornata fuori dall’ordinario, nata da una lotta che ha cambiato il mondo: lavoratrici e lavoratori che pretendono di non essere più merce, che hanno il coraggio d’immaginare una vita diversa, conquistando il diritto a coalizzarsi e con esso libertà, giustizia, protagonismo. La giornata lavorativa di otto ore – quando se ne lavoravano anche dodici e più -  diventa così l’oggetto di una lotta iniziata con una strage e conclusa con una conquista: otto ore per lavorare – non per farsi sfruttare -, otto per riposare e otto per svagarsi. Il lavoro dipendente che rivendica indipendenza, che si considera altra cosa dal capitale: una rivoluzione culturale prima che sociale o politica, l’affermazione di un proprio e autonomo punto di vista sulle cose della vita. Nato dal bisogno e in condizioni di estrema debolezza, ma capace di rovesciare il banco e aprire un confronto senza fine. Internazionale.

Poi il Primo maggio è diventato un appuntamento: festeggiato, vietato, celebrato, rimosso, a seconda di equilibri politici e rapporti di forza. Ma sempre, ovunque nel mondo, per le lavoratrici e i lavoratori, è stato insieme festa e lotta per evitare che fosse ridotto a una sorta di carnevale del lavoro, una giornata di sfogo concessa (o negata) dall’alto. Sempre ha significato libertà e indipendenza per chi col lavoro si misura tutti i giorni, ce l’abbia o meno, sia sicuro, precario o persino il ricordo della propria gioventù.

Libertà e indipendenza soprattutto quando il lavoro viene oscurato insieme ai suoi protagonisti perché lo si vuole semplice merce da scambiare, tempo di vita in cambio del soldo per vivere. O, all’opposto, quando diventa indispensabile perché un inaspettato e invisibile microbo fa saltare sofisticate architetture economiche caricando la sopravvivenza del mondo sulle spalle degli “essenziali”. Ma pure quando si tratta di costruire il proprio racconto, trovando con gli altri le basi dell’agire comune, perché nessuno si salva da solo né dall’ingiustizia né da un virus. Per farlo bisogna trasformare l’io in noi, dire di sé insieme agli altri, costruire un punto di vista e poterlo comunicare con libertà e indipendenza: è anche lo scopo di questa impresa editoriale che inizia oggi, primo maggio 2020, scegliendo di chiamarsi come il proprio programma.

A partire da questa giornata particolare, cui vorremmo far conquistare tutto il calendario, proponendo un racconto collettivo: quello del conflitto di sempre, che trasforma il lavoro da costrizione economica a occasione vitale. Per farlo dovremo avere cura di chi lavora, dei diritti conquistati e dei poteri ancora da costruire, batterci perché la ricostruzione di cui si parla non sia pagata sempre dagli stessi, com’è spesso avvenuto nella storia. Dovremo dare alle lavoratrici e ai lavoratori la possibilità di prendersi cura degli altri sapendo che potranno farlo solo curando se stessi. Non solo in un ospedale o in una residenza per anziani ma in ogni attività, nel prevalere del bene comune che parte dalle tutele individuali e arriva a quelle collettive. Curare il lavoro per curare il nostro territorio, le nostre case o scuole, le nostre fabbriche e uffici e dare un valore umano a prodotti e servizi. Insomma, far sì che la cura del lavoro diventi la cura del mondo. Il Primo maggio e tutti i giorni dell’anno.