Mentre sui cerca di formare un nuovo governo, i dati economici che riguardano l‘Italia restano molto preoccupanti. Lo certificano l’Istat su disoccupazione e Pil, l’Inps sulla cassa integrazione, e l'Ocse. “L'industria italiana soffre moltissimo, c'è un calo del fatturato e scendono gli ordinativi. Questi dati ci dicono che l'Europa è in fase di rallentamento, rischia di essere schiacciata tra Stati Uniti e Cina, e che l'Italia peggiora le performance europee. Il Pil è allo zero, quindi siamo in una fase di recessione”, spiega ai microfoni di RadioArticolo1 Emilio Miceli, segretario nazionale della Cgil.

“Bisogna immaginare una politica di governo che non sia fatta di mance o di semplice assistenza, ma che provi a rimettere in moto il Paese - continua Miceli -. Questa crisi industriale ci dice anche che i dati tendono a uniformarsi tra nord e sud, e che il grande contraccolpo c’è soprattutto nel settore dell'auto, dove la frenata è davvero brusca”. Una situazione “anche in questo caso figlia della mancanza di innovazione. C'è molto da fare per le nostre imprese, anzitutto per Fca. I governi devono favorire le condizioni per lo sviluppo, le aziende ci devono credere e devono investire”.

Intanto la disoccupazione a luglio risale, sia quella generale sia quella giovanile, spiega ancora Miceli, “con buona pace di tutti i teorici che pensavano che l'ingegneria del mercato del lavoro potesse risolvere tutti i problemi, da Sacconi a Renzi”. D’altro canto, “un Paese moderno riesce a tenere buoni livelli di occupazione o a crescere, se è in buona salute e riesce a soddisfare i suoi asset primari. L'industria è l'asset primario italiano, quindi le scorciatoie continuano a infrangersi contro l'indebolimento del sistema industriale”. Per la Cgil, questa “deve essere una delle priorità del prossimo governo. Altrimenti non ci sarà nessuna svolta”.

Al ministero dello sviluppo economico, infatti, sono ancora aperti quasi 180 tavoli di crisi, per non parlare di quelli nelle regioni, e corrispondono a circa 250 mila lavoratori appesi ad un filo. Per Miceli, parte è anche colpa del “mercato delle parole”, che “lascia le cose intatte, cambiando la segnaletica”, e che “crea incertezza, dubbi, e preoccupazione”. Dall’altra parte c’è stato anche “un tentativo di cambiare le regole essenziali di buona condotta dell'amministrazione nel sistema degli appalti”. Lo ha fatto la Lega, “pensando che più si è disinvolti, più potere si addossa alle stazioni appaltanti, e più le opere corrono”, ma dimenticando “che la storia di questo Paese che ci dice che quando stringi troppo le regole, gli appalti si fermano. E quando le allarghi troppo si fermano lo stesso, perché il criterio di responsabilità della stazione appaltante viene portato allo scoperto”.

La situazione attuale, insomma, è frutto di “un liberismo sfrenato, che tanti danni ha creato in Italia e in Europa”, perché manca la consapevolezza che “una norma deve essere equa per poter funzionare, non può essere né troppo stretta né troppo larga”. Questo ha portato il blocco delle opere pubbliche. “Il Paese ha invece bisogno di potere sperimentare fino in fondo la propria forza – ha concluso -, poter investire, e cercare di svilupparsi”.