L'articolo che segue è tratto da Idea Diffusa, l'inserto sul lavoro 4.0 a cura di Rassegna Sindacale. Nel nuovo numero (marzo 2019) parliamo di gig economy attraverso analisi, commenti e casi concreti raccontati da esperti e sindacalisti. Si può scaricare gratuitamente qui.

Negli ultimi anni la Cgil ha dedicato molte energie al tema della gig economy. L’occasione di impegno sindacale più diretto è stata sicuramente la vicenda che riguarda i rider – i fattorini del food delivery – che ha assunto rilevanza nazionale quando, fra i suoi primi atti come nuovo ministro del Lavoro e dello Sviluppo economico, Luigi Di Maio convocò alcuni ciclofattorini promettendo un giro di vite che definisse per loro tutele minime. Il promesso intervento legislativo come atto prioritario nell’azione di governo è stato poi sostituito da un tavolo di confronto composto da aziende, rappresentanti dei rider e parti sociali (sindacali e territoriali) con l’obiettivo di favorire un accordo fra le parti. Il tavolo, però, è stato convocato per l’ultima volta a novembre dell’anno scorso e le norme che dovevano essere introdotte nel cosiddetto ‘decretone’ su reddito di cittadinanza e quota 100, con molta probabilità saranno invece inserite in un altro provvedimento, quello sul salario minimo orario.

In ogni caso è utile registrare i punti di distanza rimasti tra le proposte in campo. Il primo riguarda sicuramente il riconoscimento della natura subordinata di questo genere di lavoro. È una priorità che la Cgil ha sempre sostenuto, visto che i rider rispondono a una “app” che determina luogo, tempo e modalità di esecuzione della prestazione. Quel riconoscimento, tra l’altro, permetterebbe l’applicazione delle principali richieste degli stessi ciclofattorini presenti al tavolo: previdenza e assicurazione pubblica, tredicesima e quattordicesima mensilità, trattamento di fine rapporto, ferie e riposi, minimo orario garantito, no al cottimo, abolizione del ranking reputazionale. Su questo fronte, però, le rappresentanze dei ciclofattorini hanno nel tempo ammorbidito la loro posizione, sino a rinunciare al vincolo della subordinazione e ad aderire di fatto allo schema di accordo proposto dal ministro che vedeva il riconoscimento di alcune tutele.

Da parte datoriale, la pregiudiziale posta al tavolo – con l’unica eccezione di un’azienda – è sempre stata di segno opposto, cioè mirata al riconoscimento della natura autonoma del rapporto di lavoro. In realtà, è apparso abbastanza evidente sin dall’inizio che non vi fosse una reale volontà di fare passi in avanti da parte delle imprese, pur disponibili a ragionare su assicurazione integrativa, diritti di informazione, principi di non discriminazione e sistemi di paga trasparenti, ma sempre legati a una parte variabile e in ogni caso alla prestazione. Alla fine, la pretesa di flessibilità a tutti i costi ha di fatto impedito che si potesse giungere a una mediazione.

Il secondo punto di divergenza emerso dal tavolo ministeriale ha riguardato il modo con cui regolare il settore: da un parte c’è l’idea dell’intervento legislativo (sostenuto in parte anche dai rider), dall’altra un accordo contrattuale. Su questo fronte, come Cgil e anche in modo unitario abbiamo proposto all’attenzione dei partecipanti al tavolo alcune questioni di merito e di metodo e abbiamo più volte denunciato l’atteggiamento dilatorio delle imprese e del governo che – con il richiamo continuo a una nuova legge qualora non si fossero trovate mediazioni accettabili – di fatto si è limitato a ricevere le posizioni dei partecipanti senza svolgere un ruolo attivo nella trattativa.

In termini generali, la confederazione di corso d’Italia ha sostenuto con coerenza la linea della Carta dei diritti universali del lavoro che, legando il sistema dei diritti e delle tutele alla persona e non più alla condizione giuridica e materiale del suo rapporto di lavoro, possa guardare ai bisogni e alle trasformazioni in una nuova ottica. Inoltre, i contratti nazionali devono essere il perimetro entro cui regolare, anche con soluzioni specifiche che rispondano alle particolarità organizzative, i diritti e le tutele.

Un’impostazione avvalorata anche dalla capacità innovativa del sindacato di introdurre nuove figure nei contratti collettivi nazionali, come quello della logistica ad esempio, per far sì che, oltre al trattamento economico complessivo, siano riconosciute tutte le tutele normative, previdenziali e assistenziali necessarie. Allo stesso tempo, qualora non fosse applicato un contratto di natura subordinata, vanno comunque garantite le tutele assimilabili ad esso, rimandando quindi al ccnl di riferimento. Non da ultimo, la contrattazione e la regolazione legislativa devono saper affrontare anche i temi e i bisogni apparentemente “nuovi” della gig economy, come il ruolo e il governo degli algoritmi, il sistema di ranking, il diritto alla disconnessione e alla privacy.

In questo quadro possiamo inserire il dibattito giuridico nato in seguito alla sentenza della Corte d’Appello di Torino che, dopo alcuni pronunciamenti negativi per i rider, ha dato una prospettiva nuova alla “tutela del lavoro in tutte le sue forme”. Secondo l’interpretazione dell’articolo 2 del decreto legislativo n. 81/2015, infatti, quella norma ha lo specifico scopo di allargare l’ombrello delle tutele per il lavoro subordinato a forme di collaborazioni autonome aventi un forte grado di coordinamento con l’organizzazione del datore di lavoro (in questo caso, la piattaforma digitale governata dall’algoritmo). Una sentenza che di fatto valorizza la contrattazione collettiva, facendo riferimento al “diritto degli appellanti a vedersi corrispondere quanto maturato (…) sulla base della retribuzione stabilita per i dipendenti del V livello ccnl logistica trasporto merci”. Un evidente passaggio smarcante per garantire in futuro un ruolo determinante della contrattazione stessa a tutela dei lavoratori della gig economy.

Se questo è il contesto in fieri della discussione sui rider – epifenomeno che certamente deve aprire strade alla rappresentanza di tutti i lavoratori digitali – è interessante anche raccontare come il sindacato si stia muovendo, fuori dai tavoli istituzionali, per intercettare e organizzare i lavoratori dell’economia digitale. Nuovo linguaggio, protagonismo diretto dei lavoratori, sostegno e tutela anche nel bisogno quotidiano, approccio innovativo nella relazione (non possiamo aspettare che entrino loro in una sede sindacale, non possiamo aspettare che partecipino a un’assemblea e leggano i nostri comunicati), determinazione nella ricerca di tutte le soluzioni utili a migliorare le loro condizioni: ecco le chiavi per aprirci al nuovo lavoro che cambia. Le esperienze raccontate in questo numero di Idea Diffusa riguardano la capacità del sindacato di essere soggetto collettivo della rappresentanza di questo mondo. Buona lettura.

Tania Scacchetti è segretaria confederale Cgil; Lorenzo Fassina è responsabile ufficio giuridico e vertenze legali Cgil