Il 31 marzo del 1965 si apre, a Bologna, il VI Congresso nazionale della Cgil. 

Lasciando la Confederazione Fernando Santi saluta compagni e compagne con un ultimo, bellissimo, discorso:

Questo Congresso è l’ultima occasione che mi è offerta per intrattenermi con voi. E non mi è facile parlarvi, dar corso cioè in modo adeguato ai sentimenti che in questo istante si agitano in me. Siamo stati molti anni insieme, fin dal lontano 1947. Insieme abbiamo camminato per le strade difficili, lottato e sofferto. Comuni ci furono le amarezze degli insuccessi e le gioie delle vittorie. Comuni ci furono e comuni ci restano le grandi attese ideali. In questo giorno di commiato, reso necessario dal fatto che le mie condizioni fisiche non mi consentono di far fronte con pienezza di forze alle fatiche sempre più impegnative della direzione confederale, voglio dirvi soltanto alcune cose. Non intendo infatti intervenire nel dibattito congressuale, per un dovere di elementare correttezza. Sarebbe inoltre cosa di cattivo gusto, per me che me ne vado. Non ho, d’altra parte, nessun testamento politico-sindacale da affidarvi. Anche perché non sono morto, non intendo venire commemorato e tanto meno commemorarmi. Né posso, infine, presumere di prodigarvi esortazioni e insegnamenti particolari. Quel poco che benevolmente si dice e si dirà ancora per qualche giorno di me, per la mia attività alla Cgil in questi 18 anni che restano indimenticabili nella mia vita: il senso del dovere, la fedeltà alla causa dei lavoratori, l’attaccamento alla Cgil e all’unità sindacale e - aggiungo io - la stessa ansia e talvolta la disarmante certezza di sentirsi impari ai grandi compiti e alle alte responsabilità, lo devo sì alla mia fede di socialista e di sindacalista che mi accompagna dall’adolescenza, ma lo devo anche al vostro esempio, di voi che avete lavorato, lavorate, lavorerete in condizioni ben più difficili di quelle che si incontrano alla attività di direzione della Cgil.

Vi sono, compagni, nella vita di ogni uomo momenti nei quali è difficile mentire o tacere. In questi giorni mi sono chiesto di frequente: se dovessi per singolare prodigio della sorte ricominciare da capo la mia esperienza confederale, come mi comporterei? Quale linea cercherei di portare avanti? Rifarei le cose che ho fatto? La mia risposta è: sì compagni, rifarei le cose che ho fatto. Certo mi sforzerei di evitare gli errori commessi, brucerei i ritardi che si sono verificati, colmerei le lacune ed eliminerei le insufficienze riscontrate. Ma non mi sentirei, nella sostanza, di mutare la linea di fondo portata avanti dalla Cgil da allora ad oggi.

Per l’età che già mi pesa, ho il privilegio di essere stato uno dei pochi sindacalisti italiani che all’esperienza consumata dalla Liberazione ad oggi, può sommare quella giovanile degli anni prefascisti. Alla Camera del Lavoro di Parma nel 1920, alla segreteria della Camera del Lavoro di Torino negli anni 1924-25, i tempi insanguinati di Brandimarte. Sono quindi in grado di misurare - non nella veste di storico ma in quella assai più modesta di testimone talvolta - il cammino percorso dal sindacalismo italiano, il suo divenire adulto, il suo maturarsi a rappresentare sempre più con gli interessi dei lavoratori, quelli generali della collettività nazionale. (…) dobbiamo batterci per conquistare nei fatti e nelle leggi i diritti sindacali e democratici che discendono dai principi generali di libertà che la Costituzione sancisce. Quella Costituzione che afferma nel suo articolo fondamentale che l’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro. Cosa stupendamente bella in teoria, che vuoi dire, in teoria, che il lavoro - e i lavoratori dunque - sono la base delle nostre strutture economiche sociali e giuridiche, che gli interessi dei lavoratori sono prevalenti nei confronti di quelli delle forze sociali con le quali il lavoro si trova in una naturale posizione di antagonismo. Ciò vuol dire che chi attenta al lavoro, ai suoi diritti, ai suoi stessi interessi, alla dignità dei lavoratori, attenta alle basi stesse del nostro ordinamento democratico.  (…) Stanno davanti a noi momenti difficili, se pure è vero che il movimento sindacale non ha mai avuto dinnanzi a sé momenti facili. (…) Se volessi essere patetico vi potrei dire con il linguaggio degli innamorati: vi lascio ma non vi abbandono. Vi dirò invece: non vado in pensione. Non ho nessuna intenzione di andare in pensione. In campi diversi da quello sindacale, in modi e forme diverse, sia pure con diminuite energie, io resto un militante battagliero del movimento operaio e socialista. E lasciatemi l’illusione che anche fuori, lontano da noi, dal sindacato, io possa fare lo stesso qualcosa per tutto il movimento sindacale e per la Cgil che resta la mia organizzazione. (…) Ho ricevuto in questi giorni - che non sono di letizia per me - immeritate e numerose attestazioni di stima e di simpatia. Dai compagni della segreteria confederale prima ancora che rendessi ufficiale il mio ritiro, dai compagni della mia corrente dai quali ebbi prove affettuose ben superiori ai miei meriti, dalle organizzazioni della nostra Cgil, da numerosi sconosciuti lavoratori. Potrei dirmi più che pago, dunque. Ma vi confesso che sono uomo di molte ambizioni e che la soddisfazione più grande sarebbe quella di potere avere la certezza che un bracciante, un operaio, un lavoratore solo, nel corso di questi 18 anni abbia detto, pure una sola volta di me: è uno dei nostri, di lui ci possiamo fidare. Per potergli oggi rispondere: puoi fidarti ancora, compagno.

Compagno.

“Certo è difficile dire oggi questa parola - dirà anni dopo Rossana Rossanda - (…) È una bella parola ed è un bel rapporto quello tra compagni. È qualcosa di simile e diverso da amici. Amici è una cosa più interiore, compagni è anche la proiezione pubblica e civile di un rapporto in cui si può non essere amici ma si conviene di lavorare assieme. E questo è importante, mi pare.”.

E questo è importante, mi pare.