Chiamata dal Rettore Giordano Dell’Amore durante un’assemblea indetta dal Movimento Studentesco il 23 gennaio 1973 (al Quirinale siede Giovanni Leone, al governo da pochi mesi è tornato Giulio Andreotti), la polizia spara ad altezza d’uomo all’Università Bocconi di Milano colpendo l’operaio Roberto Piacentini e lo studente Roberto Franceschi.

“Dottor Franceschi, mi scusi per l’ora, è meglio se venite al pronto soccorso del Policlinico. Roberto ha avuto un incidente”, così papà Mario e mamma Lydia vengono avvertiti dell’accaduto. Roberto è al Policlinico. Vi rimarrà, in stato vegetativo, per una settimana morendo il 30 gennaio successivo. La Polizia inizialmente parlerà di un sasso lanciato dai manifestanti, ma la verità è un’altra anche se all’inizio si fa fatica ad ammetterlo.

“Reticente la versione del Corriere secondo il quale ‘sarebbero stati esplosi colpi di arma da fuoco’ - scriverà Camilla Cederna - falsa quella del Giorno che racconta come “alcuni studenti si sono affollati all’entrata e sembra proprio che in questo drammatico momento il giovane Franceschi sia rimasto schiacciato dalla calca”. La Notte insinua che a Franceschi abbia sparato “qualche provocatore infiltratosi tra gli studenti”; l’Unità invece scrive: “Uno studente in gravissime condizioni. Secondo il Movimento studentesco è stato raggiunto da un colpo d’arma da fuoco””.

“Col sangue di Roberto ancora fresco sul marciapiede - dirà anni dopo mamma Lydia - erano già in atto, come una consuetudine, le manomissioni e i depistaggi. Una schiera di bugie divise per gradi e conoscenza parziale dei fatti, così che nessuno potesse sapere precisamente la menzogna altrui. Una mano spara, tutti la proteggono: lo chiamano spirito di corpo. A ciascuno un pezzetto”. 

Dopo la morte di Roberto

Il 3 febbraio successivo una folla immensa e silenziosa partecipa ai funeraliOltre ai familiari e agli amici, ci sono anche l’allora sindaco ed ex partigiano Aldo Aniasi; il presidente della Camera e futuro presidente della Repubblica Sandro Pertini e il giovane dirigente socialista Bettino Craxi. Ci sono gli operai, i partiti e i sindacati, una folla silenziosa e commossa, come riporteranno i quotidiani dell’epoca.

“Tutti devono morire - recita il pensiero di Mao scritto su di un foglio affisso a una parete - ma non tutte le morti hanno uguale valore. La morte di alcuni ha più peso del monte Tai”.

Scriveva qualche anno fa Antonella d’Arminio Monforte, compagna di classe di Francesco al liceo:

Io però non c’ero quella sera del 23 gennaio avevo da studiare anatomia, faceva freddo, la Bocconi non era la mia università, non me ne pentirò mai abbastanza. Ma c’era il mio ragazzo di allora e ricordo con un brivido quella telefonata nel cuore della notte e il mio non volerci credere, non è possibile, non è vero, non è giusto, il tempo deve tornare indietro, riscriviamolo in un modo diverso… con tutta la forza del mio pensiero ho immaginato gli stessi avvenimenti con un diverso finale, perché la realtà, questa realtà, non è che il frutto di una serie di nostre percezioni messe tutte in fila ad assemblare un avvenimento. Ma la lunga settimana al Padiglione Beretta con il gelo dentro e fuori non era una realtà che potevo modificare, era la realtà che modificava me, una realtà che ancora oggi mi ferisce come una pugnalata. Perché? Perché proprio a lui, perché questa inesorabilità? E poi ne sono morti ancora tanti, ragazzi come lui, qui a Milano, ma anche altrove, e il dolore è diventato un dolore universale, un dolore rabbioso accompagnato da un senso di inutilità. Oggi mi sorprendo a pensare: ma a che cosa è servito, c’è almeno una piccola cosa per cui tutto ciò ha avuto un senso? E le mie risposte sono varie, a seconda della giornata, a seconda dei miseri avvenimenti che ci circondano. E poi penso alla storia, a questa nostra storia dell’umanità, lastricata com’è di cadaveri che chiedono solo di essere ricordati per ciò che hanno rappresentato, per ciò che devono ancor oggi rappresentare.

Un maglio di acciaio ricorda Roberto Franceschi in via Bocconi a Milano dove fu ucciso.  Posato nel 1977, dal 2013 è ufficialmente un monumento cittadino.

Nel gennaio del 1976 gli artisti del Comitato promotore lanciavano un “appello alla classe operaia perché essa sia protagonista di questa iniziativa che testimonia la sua presenza e la volontà di continuare la lotta dei suoi caduti. Si chiede agli studenti, agli intellettuali e a tutti i democratici di contribuire politicamente all’iniziativa e di sostenerla (hanno già aderito: Giuseppe Alberganti, Giulio Carlo Argan, Arialdo Banfi, Lelio Basso, Giuseppe Branca, Giorgio Benvenuto, Riccardo Lombardi, Ferruccio Parri, Sandro Pertini, Giovanni Pesce, Guido Quazza, Umberto Terracini, Davide M. Turoldo)”.

Nel 50° anniversario della sua uccisione, l’Università Bocconi di Milano ha recentemente annunciato l’intitolazione a Roberto Franceschi dell’Aula Maggiore.

Dicevano a caldo mamma Lydia e papà Mario: 

La rabbia è un sentimento al quale il dolore non lascia molto spazio. Ma essa cresce col passare dei giorni e accompagna il nostro disperato sforzo di dare ancora un senso a questa vita. Dopo la severa e commovente partecipazione di tanti giovani al funerale di Roberto, preceduta e seguita da continue manifestazioni di affetto e conforto verso di noi, abbiamo sentito che potevamo ancora accettare con qualche serenità i giorni che ci restano solo coltivando nella coscienza e nel cuore gli ideali cui Roberto aveva scelto di dedicare la sua vita, solo vedendoli riflessi nella vita di nostra figlia e di migliaia di altri giovani, solo offrendo alla memoria la nostra volontà di farla rispettare. (…) Noi parliamo di ideali, Roberto avrebbe detto lotta di classe. Vorremmo poter dire che abbiamo ragione anche noi, che una società democratica si distingue per gli ideali, o i principi, che persegue e realizza nell’interesse di tutti malgrado il conflitto delle classi. Uno di essi è la giustizia. Tragica giustizia, per noi, ma essenziale per la società e i giovani che crescono in essa. Quello che accade negli uffici della magistratura ci smentisce, ci dà torto. La classe di governo si regge sulle forze di polizia, ne è protetta e la protegge, offre loro l’impunità. E viola le regole del gioco, anche le più elementari, per non mancare alla promessa. Il dolore è nostro, ma la verità appartiene a tutti.

“Ora la striscia è proprio rossa - aggiungerà - rossa viva, capisco che se toccassi il marciapiede con una mano l’alzerei grondante di sangue; del suo sangue, di quello di Pinelli, di Ardizzone, dei cittadini di piazza Fontana, di Saltarelli, di Marino, di Varalli, di Zibecchi, di Lupo, di Serrantini e di centinaia e centinaia ancora”.

Era un compagno, era un combattente
per il Socialismo e per la Libertà:
per questo il governo un plotone mandò
e un sicario alle spalle sparò.