Il 9 gennaio del 1950 la polizia spara sulla folla provocando la morte di sei lavoratori: Angelo Appiani (meccanico ed ex-partigiano di 30 anni), Renzo Bersani (operaio metallurgico di 21 anni), Arturo Chiappelli (spazzino disoccupato di 43 anni), Ennio Garagnani (carrettiere nelle campagne di Gaggio di 21 anni), Roberto Rovatti (fonditore di 36 anni) e Arturo Malagoli (operaio ed ex-partigiano di 21 anni).

“Era un freddo mattino di un giorno d’inverno - canteranno i Modena City Ramblers - l’aria era piena di sogni e paure. Renzo Bersani con gli altri operai per un futuro che non sarà mai. Angelo Appiani, di anni trenta, condannato a morte senza sentenza, aveva lottato contro i tedeschi, finiva in un colpo la sua Resistenza. Arturo Chiappelli provò anche a scappare lungo i binari che correvan lontano, ma un mitra bastardo lo prese di netto, di rosso macchiò il suo nero cappotto (…) Roberto Rovatti portava un cartello, venne picchiato con il calcio dei fucili, a sangue freddo gli spararono addosso, come una bestia buttato in un fosso. Ennio Garagnani aveva vent’anni, corse via in fretta per la paura, un colpo solo fermò la sua fuga, pistola vigliacca lo prese alla nuca. Arturo Malagoli guardò verso il cielo, pensava che forse potesse salvarlo, un altro sparo esplose assassino, colpendolo a morte senza avvisarlo”.

Dopo l'eccidio

Nella città, subito dopo l’eccidio, accorrono insieme a Togliatti e Di Vittorio i vertici nazionali del Pci, del Psi, della Cgil (la deputata modenese Gina Borellini esprimerà la sua indignazione alla Camera dei Deputati con un gesto plateale: con molta difficoltà - in quanto amputata ad una gamba- si alzerà dal suo scranno dirigendosi ai banchi del Governo, dove lancerà le foto degli operai morti) mentre l’Unità invia sul posto un giovane cronista del quale si sentirà in futuro molto parlare, Gianni Rodari.

“La città gloriosa - scriverà Rodari- ammutolita dal dolore e stretta intorno ai suoi assassinati del 9 gennaio si è riempita stamani di passi pesanti che popolavano le sue strade, le sue piazze. (…) I sei avevano l’espressione contratta del dolore e dello spaventoso stupore in cui li sorprese la morte. Caduti allineati l’uno a fianco dell’altro nelle bare avvolte in bandiere. I tre ragazzi di 20 anni sembravano ancora vivi e la terribile espressione dei loro volti sembrava dovuta ad un sogno angoscioso e passeggero. Sulle fotografie i volti sembravano anche più giovani. Garagnani e Malagoli avevano una luce quasi infantile”.

Affoga nel sangue il governo del 18 aprile, tuonava l’Avanti!. Tutta l’Italia si leva contro il nuovo eccidio!, scriveva l’Unità  (uno sciopero generale in effetti investirà tutto il Paese: da Torino a Palermo, da Bari a Livorno, Alessandria, Milano, Genova. A Roma una grande folla gremisce piazza Santi Apostoli raccogliendo l’appello della Cgil).

Così Marisa Malagoli Togliatti, figlia adottiva di Palmiro Togliatti e Nilde Iotti (“quella strana famiglia in cui non c’era un vero marito, una vera moglie, una vera figlia, ma che era felicissima e unita”) e sorella di Arturo, ricorderà anni dopo l’accaduto: “Il giorno in cui venne ucciso, ricordo che io tornavo a piedi da scuola con mia sorella Renata. Era un giorno bello ma freddo. Da lontano cominciammo a renderci conto che era successo qualcosa, c’era la polizia e quando fummo vicine alla casa sentimmo le urla e il pianto di mia madre. Il giorno dopo, c’era una nebbia terribile, fummo tutti portati in auto (e quello era già un evento, all’epoca le macchine erano una rarità) all’obitorio dell’ospedale di Modena. La scena mi è rimasta impressa: il corpo di mio fratello, il sangue dappertutto, per terra e sul lenzuolo, gli altri morti”.

Alla domanda di Romina Velchi (Liberazione, 9 gennaio 2000) Dopo il 9 gennaio che cosa è cambiato sul piano personale?, rispondeva Marisa: “Successe che Togliatti, venuto a Modena in seguito all’eccidio, decise con Nilde Iotti di aiutare una delle famiglie coinvolte. La scelta cadde su di noi. Il tramite fu l’onorevole Gina Borellini, una partigiana medaglia d’oro alla Resistenza, che in guerra aveva perso un arto. Anche dietro spinta dei miei fratelli e delle mie sorelle, fu stabilito, con una specie di accordo reciproco, che io andassi a Roma a studiare. Quello dello studio era un mito dei miei fratelli che non avevano potuto andare oltre la quinta elementare: erano consapevoli che andare a scuola era il mezzo per cambiare la propria condizione”.

I funerali delle vittime dell'eccidio

Diceva Il Migliore il giorno dei funerali:

In questo momento, dì fronte alla maestà infinita della morte, di fronte allo schianto dei familiari e al dolore di tutto il popolo, di fronte agli occhi vostri pieni di lagrime, io sento soprattutto la vanità dì tutte le parole umane. Ma parlare bisogna, perché voi, compagni e fratelli nostri, non siete caduti vittima di un tragico equivoco. Prima di voi, nelle stesse condizioni, per le stesse cause, altri lavoratori sono caduti e continuano a cadere. La fine vostra è indice di una tragedia che investe tutto il popolo, che tocca la vita stessa della nazione italiana. Ed allora parlare bisogna, e chiaramente bisogna parlare; e debbono parlare chiaramente, prima di tutto, i partiti e gli uomini che si sentono legati al popolo da inscindibili legami, e che sentono rivolgersi verso di loro la fiducia e l’attesa dei lavoratori. (…) Chi vi ha condannati a morte? Chi vi ha ucciso? Un prefetto, un questore irresponsabili e scellerati? Un cinico ministro degli interni. Un presidente del consiglio cui spetta solo il tristissimo vanto di aver deliberatamente voluto spezzare quella unità della nazione che si era temprata nella lotta gloriosa contro l’invasore straniero; di aver scritto sulle sue bandiere quelle parole di odio contro i lavoratori e di scissione della vita nazionale che ieri furono del fascismo e oggi sono le sue? Voi chiedevate una cosa sola, il lavoro, che è la sostanza della vita di tutti gli uomini degni di questo nome. Una società che non sa dare lavoro a tutti coloro che la compongono è una società maledetta. Maledetti sono gli uomini che, fieri di avere nelle mani il potere, si assidono al vertice di questa società maledetta, e con la violenza delle armi, con l’assassinio e l’eccidio respingono la richiesta più umile che l’uomo possa avanzare: la richiesta di lavorare.

“Si noti - tuonava una settimana più tardi dalle colonne di Lavoro Giuseppe Di Vittorio - che tutti questi lavoratori sono stati uccisi unicamente perché chiedevano di lavorare, gli uni sulla terra incolta, gli altri nella fabbrica serrata (…). I lavoratori sono stanchi di piangere i loro morti e non sono affatto disposti a lasciar soffocare nel sangue i loro bisogni di lavoro o di vita. La Cgil con la sua forza e il suo prestigio è riuscita sinora a contenere in limiti normali la protesta popolare contro gli eccidi. Ma la storia insegna che, al di là di un tale limite, nessuna forza umana può garantire i confini entro i quali possa essere contenuta una collera popolare lungamente compressa. Questo è il monito che viene da Modena”.

Questo è il monito che non dobbiamo dimenticare.