Il 6 luglio del 1960 a Roma viene negata l’autorizzazione a una manifestazione in ricordo dei martiri della Resistenza.

Ma i romani non ci stanno (venuti a conoscenza dell’arbitraria decisione della questura di revocare il comizio antifascista indetto a San Paolo, numerosi esponenti della cultura e dell’arte delibereranno un ordine del giorno di protesta contro il grave provvedimento: tra i firmatari Luchino Visconti, Alberto Moravia, Carlo Levi, Sergio Amidei, Corrado Cagli, Arrigo Benedetti, Lorenzo Vespignani, Renato Guttuso, Pierpaolo Pasolini, Giuseppe De Santis, Ranuccio Bianchi Bandinelli, Antonello Trombadori, Mario Pannunzio, Carlo Lizzani, Marcello Conversi, Marcello Cini, Giorgio Salvini, Vasco Pratolini) e sfidando apertamente il divieto scendono per le strade.

“La decisione di andare in corteo a portare la corona alla lapide di Porta San Paolo - ricorderà anni dopo Marisa Rodano - malgrado la manifestazione (…) in precedenza autorizzata, fosse stata vietata dal Prefetto di Roma solo mezz’ora prima dell’appuntamento - un’autentica e voluta provocazione! - era stata adottata durante una concitata riunione improvvisata, convocata da Paolo Bufalini, allora segretario della Federazione romana del Pci, non ricordo bene dove, forse nella sede della sezione del Pci di San Saba. Si era deciso, per “forzare il blocco” - l’idea era stata proprio di Bufalini -, di mettere tutti i parlamentari in testa al corteo (…) Così ci muovemmo, preceduti dalla corona, lungo viale Aventino. Fatti pochi passi, prima ancora di raggiungere Porta San Paolo, cominciò il finimondo: la cavalleria, guidata da Raimondo D’Inzeo, caricò la testa del corteo, su cui si rovesciava il getto di acqua colorata degli idranti, e intervenivano le camionette della celere. La folla si disperse per i giardinetti dietro l’ufficio postale Ostiense, per le scale che salivano tra le case verso San Saba e per le vie del vicino quartiere Testaccio. Si scatenò una vera e propria guerriglia urbana: i manifestanti si difendevano dalle cariche gettando sulla polizia tutti gli oggetti che riuscivano a trovare. Franco Rodano, Ugo Bartesaghi ed io non so come ci ritrovammo illesi e asciutti in mezzo alla confusione. Pietro Ingrao però, e un parlamentare socialista di Bologna, l’on. Gian Guido Borghese, vennero feriti dalle manganellate e furono subito portati alla Camera: entrarono sanguinanti in aula, dove avvenne un vero putiferio. Quella decisione di portare la corona a Porta San Paolo avrebbe avuto conseguenze di non poco conto: gli eventi di Roma - l’attacco ai parlamentari che guidavano il corteo, il ferimento di alcuni di loro - scatenarono scioperi generali e manifestazioni in tutta Italia, innescando una serie di drammatici scontri”.

Ricorderà anni dopo Aldo Natoli: “Si trattava di attraversare il breve spazio, meno di cento metri, che ci separava dalle schiere dei poliziotti che presidiavano la Porta e i varchi che davano accesso al piazzale retrostante. Il contatto e, forse, lo scontro sembravano inevitabili, poiché eravamo ben decisi ad affermare il nostro diritto, offeso, a rendere omaggio a quel luogo simbolico della resistenza antifascista. Su quella piazza, qualche centinaio di metri sulla destra, vicino alla caserma dei vigili del fuoco, mi ero trovato la mattina del 9 settembre 1943 e avevo sentito fischiare le pallottole; come potevano fermarci ora le camionette della Celere? In schiera ordinata, avevamo fatto pochi passi e ci trovavamo proprio in mezzo al guado, non vi era stato ancora alcun contatto con i cordoni polizieschi, quando avvenne la sorpresa; dalla sinistra, dove era stato ben coperto dietro l’angolo di case e muraglie, irruppe dritto su di noi uno squadrone di carabinieri a cavallo, al galoppo, mulinando in aria non sciabole bensì frustini”.

I Carabinieri colpiscono con frustini e moschetti, lanciano bombe lacrimogene. 

I manifestanti con il supporto di molti abitanti della zona che si riversano per le strade resistono alle cariche, difendendosi come possono. 

Si improvvisano barricate. Si resiste.

Molti dei ragazzi in piazza la Resistenza del ’43 non l’hanno fatta. Sono troppo giovani. Si ritrovano in strada per combattere sono la loro Resistenza, quella nuova, quella contro i padroni fascisti ed i loro protettori. 

Giovani che - diceva Giorgio Amendola - “avevano meno di cinque anni al momento della Liberazione”. Giovani “cresciuti in questa Italia clericale, corrotta e bigotta. Spesso c’è sembrato che ci giudicassero severamente o che ci sopportassero come rispettabili noiosi brontoloni. Eppure sono giunti all’appuntamento e hanno gettato nella nuova battaglia il patrimonio immenso delle speranze, degli ideali, dell’entusiasmo dei venti anni”. 

“I giovani - dirà Luciano Lama - sono oggi alla testa delle lotte per rivendicazioni più avanzate. Anche nei fatti di Genova i giovani hanno avuto una funzione decisiva. Per i giovani operai che non hanno sofferto l’esperienza del ventennio fascista, il fascismo si identifica con il regime di fabbrica, con le condizioni di illibertà nella fabbrica in cui sono costretti a lavorare”.

“Il fascismo - gli farà eco Vittorio Foa - per i lavoratori italiani oggi non è solo l’eco remota e nostalgica delle squadracce e delle aquile e degli orpelli barbarici dell’età mussoliniana, ma è, nelle condizioni mutate, l’arbitrio in luogo della giustizia, la disciplina subordinata in luogo della parità dei diritti e doveri reciproci fra lavoratore e padrone, la corruzione e l’avvilimento, la mancanza di prospettiva, il contrasto tra i profitti giganteschi e i salari stagnanti, lo sfruttamento intensivo della forza lavoro che impedisce all’uomo, finito il lavoro, di avere forze bastevoli per partecipare alla vita nelle sue forme più alte”.

Parole sulle quali quali riflettere ogni qualvolta qualcuno avrà la tentazione di dirci “Ma ancora di fascismo parlate?”.