Il settore bancario italiano è caratterizzato da una solida struttura di relazioni industriali, anche in ragione del fatto che circa il 75 per cento dei lavoratori sono iscritti alle organizzazioni sindacali. Possiamo dire che abbiamo l’orgoglio di essere fortemente radicati, ma nel contempo sentiamo anche la responsabilità di rappresentare al meglio i colleghi. È con questo senso di responsabilità che affrontiamo un tema, quello delle pressioni commerciali, diffusamente sentito nel settore.

Con la profonda trasformazione del sistema bancario e finanziario italiano che ha preso avvio negli anni Novanta, si è determinato un marcato cambiamento di modello e di organizzazione, unitamente a un diverso e più aggressivo approccio commerciale. Questo dato deve portare a riflettere sul ruolo del sistema bancario e finanziario a sostegno della politica economica del Paese, alle regole necessarie per il corretto svolgimento di questo compito, anche con riferimento all’attuazione di quanto sancito dall’art. 47 della nostra Costituzione.

Di per sé, i prodotti finanziari non sono buoni o cattivi. La differenza è data dalla diversa rischiosità, complessità, orizzonte temporale e adeguatezza al profilo di clientela a cui i prodotti vengono proposti e il sistema bancario sistematizza tutte queste caratteristiche rendendole adeguate alla diversa tipologia di cliente. È indubbio che il decreto legislativo 231 del 2001, riguardante la disciplina della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, ha determinato un punto di svolta, nella misura in cui ha sancito la separazione tra la responsabilità giuridica della banca da quella dei propri dipendenti.

Nel momento in cui, infatti, la banca dimostra di aver assolto alle prescrizioni previste dal decreto legislativo 231 viene esentata da ogni responsabilità diretta della quale, invece, viene investito il o la dipendente. La segmentazione della clientela, politiche commerciali sempre più pressanti e diversificate e il legame di causa/effetto tra i sistemi incentivanti e i risultati conseguiti costituiscono oggi la realtà del “sistema” che può presentare effetti distorsivi.

Con riguardo ai modelli di business e ai processi di riorganizzazione e di ottimizzazione delle risorse, come sindacato abbiamo più volte cercato un confronto con le singole aziende. Il vigente contratto collettivo nazionale contiene la previsione di una procedura di confronto con le organizzazioni sindacali in tema di sistemi incentivanti, ma consente comunque all’azienda di dare corso alle proprie determinazioni, qualora alla conclusione di tale procedura permangano pareri e valutazioni difformi con il sindacato.

Inoltre, l’affidamento degli obiettivi commerciali anche quando si sostanzia più come assegnazione di “squadra” ha meccanismi e prassi di pressione diretta sui singoli dipendenti. Il raggiungimento degli obiettivi (definiti dall’azienda senza alcun passaggio di trattativa né collettiva, né individuale) diventa, nei fatti, condizione per il conseguimento della remunerazione-premio prevista dal sistema incentivante.

Oltre al controllo e alla valutazione del diretto superiore gerarchico, sempre presente, bisogna ricordare che prolificano ormai moltissimi sistemi di rilevazione di ogni tipo di dato che va dalla programmazione dell’attività lavorativa del singolo (scandita con le agende elettroniche in condivisione, che prevedono prestazioni perfino di cinque minuti) e del risultato economico conseguentemente atteso, fino alla consuntivazione del risultato giorno per giorno, risorsa per risorsa.

In questo meccanismo si inseriscono le “pressioni commerciali” effettuate con qualsiasi mezzo informatico (comprese le comparazioni tra persone e strutture) o persino diretto e personale ma è chiaro che, al di là del comportamento più o meno pressante dei singoli, è il sistema che induce a un rapporto “aggressivo” con la clientela che si sente utilizzata piuttosto che tutelata e che ha perso fiducia nel sistema bancario nel cui comportamento non legge più la funzione sociale e di sostegno che dovrebbe svolgere.

Da questa pur sommaria descrizione dei meccanismi e delle prassi generalmente in atto, si desume facilmente che il lavoratore è oggettivamente posto in una condizione spesso difficile e di più o meno grande disagio. Non sono infrequenti fenomeni di assunzione di ansiolitici da parte di quei dipendenti che più avvertono forme molto pressanti di controllo a livello individuale e anche collettivo. Misure e pressioni che, come è evidente, possono variare da persona a persona, da gruppo a gruppo, da area ad area.

Nel febbraio 2017, è stato sottoscritto tra Abi e le sindacati di settore un “Accordo sulle politiche commerciali e l’organizzazione del lavoro” che favorisce il rispetto di valori etici fondamentali e promuove comportamenti coerenti con i valori etici a cui devono ispirarsi politiche commerciali responsabili e sostenibili in termini di tutela del risparmio, soddisfazione della clientela, rispetto della dignità di lavoratrici e lavoratori.

Un accordo che è stato declinato in moltissime aziende e gruppi del settore e che prevede anche segnalazioni in caso di difformità nei comportamenti. Un accordo che è unico a livello europeo e che ha avuto per Abi e le associate un rilevante effetto “vetrina”. Come organizzazioni sindacali rivendichiamo il merito e la valenza di questo accordo, frutto anche di relazioni sindacali avanzate. Non possiamo però sottacere il fatto che le segnalazioni sono molto inferiori rispetto a quanto viene continuamente denunciato, attraverso comunicati, dalle rappresentanze sindacali dei vari territori.

Ciò si spiega, a nostro parere, con il fatto che l’anonimato della denuncia, previsto dall’accordo, nei fatti viene a mancare quando poi in Commissione si esamina il caso specifico, anche quando denunciato dalle sole organizzazioni sindacali. Questa oggettiva difficoltà ingenera nelle lavoratrici e nei lavoratori diffidenza, scarsa fiducia nello strumento della denuncia, anche se agito in forma anonima. Va sottolineato che le segnalazioni hanno riguardato spesso comportamenti offensivi o aggressivi singoli e non l’organizzazione e il clima aziendale.

Per quanto riguarda, poi, i percorsi professionali, essi sono previsti dal vigente contratto nazionale di settore e vengono definiti dalla contrattazione di secondo livello. Sono, dunque, diversi per articolazione e struttura in ragione del modello organizzativo di ogni singolo gruppo o azienda e dei relativi accordi esistenti. Se, però, i percorsi professionali sono “contrattualizzati” e quindi “trasparenti” perché regolamentati (e lo sono diffusamente nel settore), è pur vero che gli avanzamenti di carriera o, talvolta, di salario possono comunque verificarsi anche al di fuori dei percorsi professionali contrattualizzati, perché restano nell’alveo della discrezionalità dell’azienda e dell’esercizio della libertà di impresa. Ciò determina il rischio che, in alcuni casi, la valutazione e la relativa remunerazione della professionalità tendano in buona parte a limitarsi ai risultati commerciali conseguiti.

Ho cercato di tratteggiare brevemente alcuni aspetti problematici se non critici legati al tema delle pressioni commerciali. A nostro parere, il problema di fondo è quello che si è accennato all’inizio. In assenza di attenzione alle politiche creditizie e finanziarie nei confronti del sistema Paese, si assiste da tempo (e oggi è ancor più evidente) a una trasformazione da banche tradizionali a banche fortemente commerciali. Se si leggono i bilanci, i ricavi da commissioni sono ormai una parte importante del margine di intermediazione e, di fatto, risultano più consistenti del margine di interesse.

Questa trasformazione, unitamente alla spinta verso le concentrazioni, sta portando il sistema bancario ad abbandonare tanti territori: dal Sud, alle aree interne e montane, con difficoltà reali di accesso al credito da parte di piccoli risparmiatori e piccole e medie imprese che non hanno più a disposizione, in alcuni casi, né il bancomat, né un operatore al quale chiedere consulenza. L’Italia è un Paese che presenta, oggi, alcuni aspetti peculiari: una rete di amministrazioni locali molto vasta e frammentata con i nostri oltre 8.000 comuni; un sistema produttivo e terziario fortemente caratterizzato dalla piccola e media impresa; uno sviluppo delle reti digitali non omogeneo e caratterizzato da vaste aree territoriali trascurate, se non in alcuni casi, dimenticate.

L’assenza di sportelli fisici nei quali recarsi non aiuta alla costruzione di un sistema virtuoso nel quale anche le banche dovrebbero inserirsi per sostenere sviluppo e crescita del Paese. La progressiva riduzione della presenza di sportelli bancari in tanti territori rischia di essere uno dei segnali di abbandono e potrebbe concorrere a dare nuovo spazio alla piaga dell’usura e alla criminalità organizzata. Nessuno intende sottovalutare il fatto che le banche sono imprese private che hanno come obiettivo quello di produrre risultati e utili per i propri azionisti. Al contempo, però, non può e non deve perdere forza e fattualità il ruolo che l’art. 47 della Costituzione assegna loro, quando prescrive che “la Repubblica …. disciplina, coordina e controlla l’esercizio del credito”.

Soprattutto oggi, nella difficile transizione oltre la crisi pandemica e le sue implicazioni profonde e di fronte alle conseguenze economiche e sociali indotte dalla sciagurata guerra di Putin, c’è bisogno di determinare i presupposti per una ripresa caratterizzata dalla sostenibilità. Le banche devono essere parte di questo processo, attraverso una loro presenza diffusa e la capacità di sostenere l’economia, separando le attività di banca tradizionale da quelle di tipo esclusivamente finanziario.

Non si può prescindere dalla tutela del risparmio: ciò passa anche dal riconoscimento e dalla valorizzazione delle capacità professionali delle addette e degli addetti del settore, attraverso un’organizzazione scevra dal produrre tensioni dannose e un peggioramento del clima aziendale. In questa ottica, tengo a rimarcare una volta di più come il fenomeno delle pressioni commerciali, se non deve essere affrontato in modo strumentale, non può nemmeno essere ridotto solo a comportamenti eccessivi e distorsivi di singoli, ma deve comportare un’equilibrata correzione di aspetti non secondari dei modelli organizzativi oggi in essere. Nell’interesse delle persone che rappresentiamo, dei clienti e della credibilità stessa del nostro sistema bancario.

(Tratto dall’audizione alla Commissione parlamentare di inchiesta sul sistema bancario e finanziario del Senato)

Nino Baseotto è segretario generale Fisac Cgil